I tormentoni sono una cosa irritante.
Entrare in un bar e sentire gli altri avventori parlare delle stesse cose di cui la nostra vicina di casa stava discutendo col fruttivendolo dieci minuti prima, che poi sono le stesse con cui i colleghi ci hanno assillati per tutto il giorno, sentiremo alla radio guidando verso casa, troveremo sullo smartphone nonappena la nota vibrazione intermittente ci informerà di un aggiornamento di facebook, e infine ci aggredirà nuovamente se avremo la malaugurata idea di accendere il televisore, ci dà ogni giorno il polso di quanto lo psichismo collettivo sia addestrato a concentrarsi su cose che i “costruttori di opinioni” confezionano appositamente per noi. Roba da farti rimpiangere la musica pop da centro commerciale.
Tutti noi, chi più chi meno, ci sentiamo prima o poi chiamati a dire la nostra come se stessimo partecipando ad un talk show, e tutti noi, chi più chi meno, abbiamo un piccolo “Maurizio Costanzo custode” sulla spalla che ci fa sentire in dovere di esprimere pareri, possibilmente scaldandoci, perché in questo mondo, invertito come la croce dei satanisti, lo scaldarsi, l’interrompere l’interlocutore, l’alzare la voce, l’annientare con frasi ad effetto l’avversario, il pretendere di avere sempre l’ultima parola foss’anche per esprimere un concetto idiota, sono percepiti non come segni di povertà interiore mancanza di autocontrollo o di rispetto, ma come prove inconfutabili di padronanza dell’argomento. Per contro, pacatezza, silenzio e garbo vengono visti dai più come segni di debolezza.
Almeno per la massa.
Questo non è mai piacevole per chi cerca di usare la propria testa, non tanto o non solo per l’impossibilità di sottrarsi ai tormentoni, cosa che già di per sé infastidisce, ma soprattutto perché è enormemente triste vedere le persone con cui trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, magari quelle a cui vogliamo bene, incastrate in vere e proprie allucinazioni collettive utili solo a far perdere preziose energie e ridursi a una forma di autismo soft.
Certo, il fenomeno offre anche spunti interessanti: quando si vuol sapere in che direzione tirino le grandi correnti basta andare su Facebook e guardare il profilo delle persone più “informate” (secondo il loro personalissimo parametro) che si conoscono. Leggere quello che scrivono, analizzare cosa credono di pensare, osservare il loro lessico contaminato di neologismi e prestiti dall’inglese, e magari farsi due risate non è una semplice perdita di tempo, ma un ottimo modo di comprendere con che intensità stia lavorando il mondo della comunicazione sulla popolazione.
Ma in generale non è piacevole assistere a simili fenomeni di possessione mediatica.
Non lo è a maggior ragione in quei casi, la maggioranza oserei dire, in cui il tormentone consiste nel mettere alla gogna questo o quel personaggio.
E’ ancora fresca nelle nostre orecchie, sebbene siano passati ormai un po’ di anni, la famosa conversazione telefonica fra il Capitano Antonio de Falco della capitaneria di porto di Livorno e Francesco Schettino, ex comandante della concordia. E’ nelle nostre orecchie perché qualcuno ha ritenuto opportuno renderla pubblica, darla in pasto alle masse ansiose di sentirsi superiori a chi si era macchiato di una viltà palese, evidente più di una tautologia. Schettino, resosi colpevole prima di un errore del tutto umano, poi dell’infrazione di una legge del codice della navigazione (tutte cose per le quali è stato chiamato a rispondere), si è ritrovato ad essere il capro espiatorio di un’Italia orfana di Berlusconi (prima il puntaspilli dell’italiano medio indipendentemente dal colore politico era lui) e desiderosa di avere un nuovo individuo verso cui indirizzare la frustrazione derivante dal vivere in un mondo (un mondo, non un paese come piace belare ad molti nostri ingenui connazionali) totalmente allo sbando. La telefonata ha fatto il giro dei PC di tre quarti del paese attraverso i social network e le chat, dando la possibilità a tutti di puntare l’indice contro il mostro sbattuto in prima pagina. Sentirsi un po’ migliori per demerito altrui. Per chi la ricorda, si tratta di una conversazione insostenibile in cui un uomo (col culo al caldo) infierisce su un altro che è palesemente in errore. Il compiacimento di de Falco è nettamente percepibile. E dà la nausea. Forse più dell’impacciata pavidità di Schettino. Eppure ha consentito a tutti, dai tredici anni in su, di puntare l’indice contro il comandante Schettino indirizzando contro di lui tutta l’energia negativa possibile, un po’ come i terrestri ormai invasati dalle piante aliene nel film “Terrore dallo spazio profondo”, seconda riduzione (e parziale variazione sul tema) in termini temporali di quel gioiellino della fantascienza classica che è “L’invasione degli Ultracorpi”.
In quel film una forma di vita aliena, di natura vegetale, invadeva il nostro pianeta copiando ogni singolo terrestre in tutti i dettagli, dalle fattezze fisiche alle cicatrici, e infine sostituendolo con quella che era a tutti gli effetti una copia, un clone, un guscio vuoto senz’ anima. Solo funzioni fisiologiche e semplice ragione. Nessun sentimento di pietà o empatia. Macchine biologiche.
Quando una “copia” incappava in un terrestre non ancora clonato e sostituito, lo denunciava indicandolo con l’indice ed emettendo un urlo bestiale ed inintellegibile. La metafora è chiarissima.
Quell’urlo significa lui non è come noi, attenzione! E la bestialità di esso sembra essere una rappresentazione simbolica della ferocia irrazionale di quelle che noi chiamiamo opinione pubblica e omologazione. E che oggi si espimono attraverso link, fotomontaggi, caricature, tormentoni che altro non sono se non forme di comodo bullismo in cui la vittima è sufficientemente lontana da non permettere reazioni contro il proprio carnefice, il quale ha pure l’apparente giustificazione di sentirsi dalla parte della ragione.
Non possiamo certo dire che Schettino non meritasse il biasimo della popolazione, ma la diffusione della telefonata è servita a far sentire tutta Italia dalla parte dell’odioso (ammettiamolo!) de Falco. E’ servita a far sì che la gente potesse puntare l’indice e dire non tanto lui non è come noi, quanto NOI NON SIAMO COME LUI!
Beh cazzo, chi è sano di mente e capace ancora di sentimenti umani dovrebbe invece gridare io non sono come de Falco!.
Vi è in tutto ciò il solito odioso meccanismo della discriminazione del diverso, diverso in questo caso per il fatto di essere reo. Ma il fatto che la persona sia esecrabile o meno, non esime chi la dileggia dall’essere etichettato da chi ha ancora una testa pensante come conformista e meschino.
Il fenomeno dell’antiberlusconismo a tutti i costi, l’accanimento contro i Grillini, la condanna dei “comunisti” o dei “fascisti” sono, al di là delle ideologie o del modo di vivere che in qualche modo rappresentano, al di là di quanto il biasimo sia fondato o meno, l’equivalente delle bambolette su cui gettare il malocchio rispondendo a un meccanismo ben noto: quello della discriminazione del diverso, in molti casi, forse tutti in forma più o meno esplicita, spinta dal motore dell’invidia.
“Invidia” è una parola la cui interpretazione ha molte sfumature. Alcune, nel linguaggio parlato, hanno addirittura una accezione positiva. “Ti invidio”, si usa dire a un amico che ha delle qualità di cui noi difettiamo, e si usa la parola “invidiabile” in riferimento alle abilità di sportivi, attori, scrittori, musicisti per elogiarne la maestria. E non sarebbe sbagliato, in questa accezione, dire che l’invidia è un meccanismo che ci spinge all’automiglioramento.
Ma in questa sede si vuole usare la parola proprio nella sua accezione classica, ossia quella che ci spinge ad avere sentimenti di astio nei confronti di chi possiede un bene, uno status o una qualità che noi non abbiamo, fino a desiderarne il male.
E’ di questi giorni la levata di scudi contro la gaffe, anzi è doveroso dire “presunta gaffe” di Alice Sabatini, la neoeletta miss Italia.
La scena è chiarissima, reperibile senza problemi su youtube (link).
Amendola chiede alle tre finaliste in quale epoca storica avrebbero voluto vivere e perché.
Alice Sabatini, pochi minuti prima di essere incoronata miss Italia, all’apice di una tensione del tutto visibile nella mimica e nella parlata concitata, così risponde: “Nel ’42. Sui libri ci sono pagine e pagine, io volevo viverla, tanto so’ donna e il militare non l’avrei fatto e me ne sarei stata a casa”.
Questa, almeno, è la notizia che è rimbalzata in giro fra stampa e social network, perché chi si è preso la briga di cercare su youtube l’intervento nella sua interezza, ha potuto osservare che le parole della Sabatini non si sono fermate lì, ma continuavano con una specificazione che tutti hanno taciuto: “sarei rimasta a casa nel terrore”.
Non ha detto “me ne starei a casa tranquilla” (anche perché solo un persona completamente obnubilata può pensare che si potesse stare tranquilli a casa nell’Italia quegli anni, il che la dice lunga sulla lucidità delle menti illuminate che hanno additato la povera Alice), ha detto “sarei rimasta a casa nel terrore”. Vi è poi di aggiungere che, come uno squalo che fiuta il sangue, Amendola si trasforma in professore e incalza la sua preda nonappena questa pronuncia la parola ’42, dicendo non senza una certa ironia “non basta dire l’anno, bisogna motivare”. Echi della scuola e delle odiose esperienze alla lavagna al cospetto di un insegnante sadico sotto gli occhi dei più stronzi fra i compagni di classe si affacciano mentre osserviamo il crescente impaccio di Alice che alla fine viene interrotta dall’ironia di Vladimir Luxuria (uno che se non avesse avuto contemporaneamente il cazzo e le tette non se lo sarebbe filato nessuno né in politica né nel mondo dello spettacolo) “siamo passati dal ‘vorrei la pace nel mondo’ al ‘vorrei la guerra’ “, sottolinenado l’ironia del paradosso e buttando tutto in risata. E vai di fanfara. La giovane viene messa in croce nel giro di poche ore, a maggior ragione dopo che viene rivelato il suo primo posto. Per carità. Tutto a vantaggio della sua visibilità senza ombra di dubbio (e viene da pensare che sia tutto costruito), ma l’oggetto di questo articolo non è tanto l’accaduto (non diverso da tanti altri “scandali” trasformati in tormentoni), quanto piuttosto quello che è scattato in capo all’italiano medio, anzi mediatico.
C’è di sicuro uno zoccolo duro di racchie frigide e sessuofobe, esseri meno che femminili che probabilmente trombano solo a carnevale, quando possono coprire le proprie fattezze con maschere e opportuni travestimenti. Ci sono sempre state e sempre ci saranno. De Andrè diceva che la gente dà buoni consigli se non può (più) dare il cattivo esempio. Si tratta di personaggi invidiosi che avranno sempre da ridire su modelle, l’indossatrici, attrici, la cantanti di moda o vicine di casa che hanno una vita sessuale più soddisfacente della loro o semplicemente un aspetto più gradevole. Non sono diverse da quei frustrati che vanno ai concerti per contare le stecche di musicisti famosi come loro non saranno mai.
Si sa già chi sono queste persone e sono sempre esistite. Poi ci sono gli pseudo intellettuali, quegli individui livorosi come professoresse di chimica stitiche e noiosi come appassionati di jazz, eredi di un intellettualismo anni settanta, che cecchineranno qualunque miss per il semplice fatto che un concorso di bellezza è una cosa frivola. Anche questi ci saranno sempre.
Anche senza l’ausilio dei giornalisti queste persone sarebbero state comunque lì pronte col loro fucile di precisione a puntare la miss di turno.
C’erano. Ci sono. Ci saranno.
Quello che salta all’occhio oggi, e che nel caso di questa ultima miss Italia è particolarmente lampante, è non solo il fatto che ora, complici i social network, praticamente tutti partecipano al linciaggio di massa (anni di talk show e opinionismo di basso livello, corroborato dalla superficialità con cui si raccolgono informazioni online unitamente alla “distanza di sicurezza” garantita dalla virtualità hanno trasformato il nostro paese in un covo di iene che praticano il bullismo in differita), ma soprattutto che questo schiacciasassi corale alimentato dall’invidia non si ferma davanti a nulla. Nemmeno davanti a una diciottenne colta di sorpresa da una domanda strana in una situazione già di per sè surriscaldata dalla tensione.
Perché quello che nessuno sembra aver notato è che quel filmato trasuda tensione emotiva, impaccio, imbarazzo, incredulità e tutta quella gamma di emozioni che una situazione simile può suscitare in un cuore giovane, anche il più disilluso. Ciò che quella ragazza dovrebbe suscitare, casomai, dovrebbe essere una benevola compassione, un sentimento di solidarietà, di tenerezza. Dai nostri cuori, o per meglio dire dai cuori di molti di noi, è stata completamente eliminata l’empatia, sostituita dalla diffidenza, dall’invidia e dall’arrogante presunzione di sentirsi in diritto di giudicare tutto e tutti, come se la nostra opinione fosse sempre importante.
Al punto che basta un giornalista furbo dia il “la”, e si è pronti a scatenarsi in un rito collettivo di dileggio che fa rabbrividire. Nemmeno una diciottenne sul punto di coronare un sogno, frivolo quanto si vuole ma pur sempre un sogno, viene risparmiata benché tutta la sua fragilità traspaia da ogni fotogramma del video.
E il punto è che se i giornalisti non avessero battuto su questa gaffe, probabilmente nessuno spettatore ci avrebbe fatto caso. Forse solo quelli più maligni.
Qualche anno fa era nato un movimento il cui nome era già tutto un programma. Quello degli indignados (o quello, ancora più buffo, del se non ora, quando?). Un movimento che era un controsenso a partire dal nome giacché l’indigazione è uno stato interiore che presuppone un fatto che la susciti. In pratica quel movimento era una specie di golem a uso e consumo dei partiti di opposizione, sfumati nella figura del politico di riferimento. Se a qualcosa è servito, è servito solo a far capire al mondo intero quali gusci vuoti siamo diventati, esattamente come gli Ultracorpi del romanzo di Finney e del film di Kaufman. E’ servito a evidenziare quale imbarbarimento abbia subito il concetto di partecipazione politica, ridotto a mero evento da sagra con slogan annesso. E infatti, ottenuto lo sfogo delle masse (e qualche esiguo risultato politico), gli indignati hanno smesso di indignarsi e hanno ricominciato a vivere le loro vite come se niente fosse accaduto. Viene da chiedersi se si ricordino di quei giorni. Frustrados, se questa è la traduzione di “frustrati” in Spagnolo, sarebbe stato un nome molto più rappresentativo e sincero.
Il concorso di Miss Italia, così come il festival di Sanremo è sempre stato uno di quei riti collettivi imposti capaci di suscitare sentimenti contrastanti: interesse e coinvolgimento in alcuni, diffidenza e disprezzo in coloro che lo percepiscono come una di quelle cose che, venendo dall’alto, sono imposte dal Potere. Quel potere che non è nella politica ma è sopra la politica, permette ad essa di esistere e non ha giustificazione che in se stesso. Quel potere che esiste indipendentemente da chi sia al governo in un dato momento storico. Per questo non ha torto né chi disprezza il concorso né chi da esso si fa affascinare. Ma di sicuro non ha molto senso criticare con tanto livore i suoi partecipanti, così come nessuno si sognerebbe mai di prendere per il culo chi ha un conto in banca per il solo fatto che le banche stanno prosciugando il mondo.
Il motivo per cui Alice Sabatini è stata insignita del titolo di puntaspilli della settimana è che, a differenza di chi ha un conto in banca, è assurta d uno status differenziato: quello di Miss. E questo ha scatenato il meccanismo dell’invidia. Un’invidia tale da far sì che chi se ne è lasciato invasare si sia soffermato sull’informazione troncata “me ne resterei a casa” e non all’informazione completa “me ne resterei a casa NEL TERRORE”.

Più in alto sali, più piccolo ti vede l’occhio dell’invidia. Più di tutti è odiato chi vale. (Friedrich Wilhelm Nietzsche)
Non interessa in questa sede perdersi in disamine sulla legittimità di definire “valore” il fatto di essere una miss, né ha senso in questo articolo soffermarsi sui rapporti fra invidia, consumismo e capitalismo, casomai è interessante osservare come una volta eravamo soliti identificare le persone frustrate, meschine, tristi, come “invidiose”. In paese c’era sempre la vecchia rompicazzo, come sull’autobus si incontrava sempre la bruttona che ce l’aveva a morte coi giovani o con le belle ragazze perché sì. E poco ci mancava che prendesse a bastonate gli oggetti del proprio astio per futili motivi.
Liquidavamo queste persone dicendo che erano frustrate, magari scopavano poco o non scopavano per niente. Magari erano segnate da esperienze di vita difficili, oppure semplicemente non erano state fortunate pur vivendo una tranquilla vita borghese.
Magari, dicevamo di chi ci insultava per un nonnulla, ha avuto una brutta giornata. Ed era liberatorio perché sottointendevamo che noi invece no. Magari la vita di quella gente era riempita solo da un animale domestico, e le sere illuminate dalla fredda luce bluastra della televisione. Magari quelle persone erano così perchè stentavano ad arrivare a fine mese, erano sempre con l’acqua alla gola, pensionati o lavoratori precari.
Sono degli esauriti, concludevamo.
Ebbene, alla luce di questa digressione, è abbastanza facile capire perché oggi quello stato di frustrazione e livore che spinge a odiare tutti è tanto diffuso: il mondo della crisi economica, della grande distribuzione, del consumismo esasperato ed esasperante, degli assillanti aggiornamenti software, dei non luoghi (si veda a tal proposito l’articolo di questo blog intitolato “verrà il tempo dei morti”), degli agenti di commercio, del precariato come standard, del mobbing come prassi comunemente accettata perché altrimenti non trovo altro, ci ha portati ad avere sempre una brutta giornata, ad essere sempre con l’acqua alla gola, ha causato un esaurimento nervoso collettivo rendendoci come quelle zitelle e quei vecchietti incazzati che un tempo irridevamo perché non potevamo capirli fino in fondo.
Siamo frustrati, tristi ed incazzati.
E soprattutto siamo così confusi da non capire più verso cosa dovremmo indirizzare più legittimamente l’odio che nasce dal nostro dolore. Così puntiamo l’indice contro chi ci fa sentire un po’ meno brutti e tristi. Non per merito nostro ma per (presunto) demerito suo.
A tutti gli effetti l’invasione degli ultracorpi c’è stata, ma non è venuta dallo “spazio profondo” di cui al titolo del film di Kaufman.
E’ venuta dal mondo che ci siamo caparbiamente costruiti mattone su mattone.
“Se un giorno il vostro cuore dovesse essere mosso dal pessimismo e corroso dal cinismo, possa Dio avere pietà della vostra anima di vecchi”
(Generale Douglas Mac Arthur ai cadetti di West Point, 1945)
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Condivido. Il titolo dice tutto. E come sempre si ritorna alla mela…su scala planetaria. Un po’ sconfortante.
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“Invidia prima”, nella Commedia, è Lucifero.
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Complimenti…profondo e lucida analisi.
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Grazie!