Eravamo bambini e guardavamo di nascosto pellicole horror a tarda sera.
Italia Uno trasmetteva film come Nightmare e Suspiria il martedì, alle ventuno e trenta, dopo i ragazzi della terza c.
Le reti private proponevano i film di Fulci e Bava, e un incalcolabile numero di pellicole anni settanta e ottanta dalla qualità altalenante. Da Hellraiser a From Beyond, da La Casa del Tappeto Giallo (che forse non è un horror ma è comunque una tortura per la psiche) a La Notte di Halloween.
L’Esorcista ce lo schiaffarono a tavola in prima serata e, per tre estati di fila, ci sporcammo il cervello con una specie di Bim Bum Bam per serial killer chiamato Zio Tibia Picture Show.
Poi qualcosa cambiò e l’horror, semplicemente, sparì dai palinsesti.
Certo, potevi sempre beccarti qualcosa di interessante facendo zapping notturno, e capitò pure che I Bellissimi di Rete4 ci offrisse senza preavviso film come Non Si Sevizia Un Paperino o La Casa Dalle Finestre Che Ridono, ma non è questo il punto.
La cultura degli anni novanta aveva conosciuto un cambio di paradigma. Se i musicisti ritenuti estremi negli anni ottanta parlavano di sacrifici umani ed abissi insondabili che inghiottivano l’umanità, negli anni novanta i giovani preferivano sentirsi dire da Cobain che la vita era una merda. L’orrore, l’orrore inteso come male di vivere c’era, ma la fantasia era bandita. Non più il meraviglioso, il sinistro e l’orrido ma lo squallore e la desolazione erano nell’obiettivo della macchina da presa delle masse, perlomeno a livello mainstream.
Persino i lettori di Dylan Dog se ne accorsero: il loro fumetto preferito si trasformò da serie horror in mensile di denuncia sociale, con malcelate pretese pedagogiche madide di quella sgradevole ed untuosa spocchia politicizzata che intride di sé tutto ciò che nel Bel Paese viene chiamiato arte o comunicazione.
L’Horror non era più contemplato. C’era, ma era una cosa per appassionati. Se ne produceva di meno, e quasi sempre a basso costo. Poi, intorno al 2000, qualcosa cambiò, il genere riesplose come se gli anni ottanta non fossero mai andati via, e divenne pane quotidiano per molti. Non più solo adolescenti (era questo il pubblico che negli anni ottanta si riversava nelle sale a vedere l’ennesimo capitolo di Nightmare), ma anche adulti dal palato raffinato. Infatti anche sotto il profilo tecnico qualcosa cambiò. Sparì per sempre quel retrogusto vagamente amatoriale che in passato caratterizzava molte pellicole di genere e i film di paura furono sdoganati in ambiti tutt’altro che di seconda fascia. Da genere di nicchia a fenomeno pop, come accadde negli stessi anni per il metal più estremo.
Inutile analizzare in questa sede cosa sia cambiato all’alba del nuovo millennio, cosa sia vibrato spontaneamente nell’inconscio collettivo e cosa sia stato fatto vibrare di proposito. Dovremmo tirare in ballo temi inadatti a questa sede.
Ma c’è una vena sotterranea, in quella fiumana di pellicole più o meno riuscite, che ci preme analizzare per la sua portata antropologica. Un sottogenere cinematografico, uno strumento della fantasia umana che riesce (di certo volutamente nei suoi primi esemplari, non sappiamo, invece, quanto volutamente in quelli che sono seguiti) a mettere a nudo meglio di un saggio di sociologia chi, anzi, cosa siamo, dove stiamo andando e cosa sta succedendo. Ci preme focalizzarlo per le sue implicazioni culturali e soprattutto perché permette di osservare come negli anni ottanta ci sia passato sotto il naso un messaggio che allora non eravamo, qui in Italia, in grado di capire.
E molti di noi non possono comprendere neppure oggi.
Parliamo dei film di Zombi.
Si tratta forse del genere più canonizzato e standardizzato che ci sia.
Il canovaccio è sempre lo stesso, le ambientazioni pure.
Nessun mistero, nessuna “cerca” dell’eroe, nessun demone medievale evocato durante una messa nera, né creature innominabili provenienti dai peggiori e ancestrali incubi dell’umanità.
Solo un gruppo di persone che, nello scenario apocalittico di un’invasione di morti viventi, invasione quasi sempre planetaria, quasi sempre non spiegata, quasi sempre ineluttabile, cercano di sopravvivere rintanandosi in qualche luogo protetto (case, negozi, bar, centri commerciali) mentre la società va allo sfascio, anzi letteralmente si de-compone, tanto per restare in tema di cadaveri. Vengono messe in scena più o meno approfondite analisi psicologiche dei personaggi, e spesso esplodono conflitti fra i protagonisti, poi si va dritti verso il finale, di solito tragico o perlomeno pessimistico del tipo “quanto potremo durare ancora?”.
A parte qualche trovata originale, qualche variazione sul tema, i film sui morti viventi ricalcano la traccia lasciata dai primi due (anzi tre) film della saga di Romero.
Il pubblico non chiede altro, il pubblico è contento così.
Ed è talmente contento che persino Hollywood ha deciso di credere nei morti viventi tanto da proporci il recente Kolossal con Brad Pitt,World War Z mentre la serie televisiva walking dead è alla quinta stagione.
Eppure,cazzo, i film di zombi sono storie di un gruppo di stronzi e due tre isteriche mestruopatiche, che corrono terrorizzati in scenari semideserti, inseguiti da una folla di storpi macilenti!
Un po’ come da piccoli quando, a tarda sera, citofonavamo ai vecchietti e scappavamo.
Vero.
Ma c’è qualcosa di più.
Anche quando questo qualcosa non è previsto dagli sceneggiatori, essendo radicato nell’idea stessa che sta alla base degli zombie movie e a cui quelle pellicole devono il loro successo.
Si possono dare molte risposte alla domanda su cosa sia la base del successo che in questi ultimi anni hanno riscosso i film di zombi. L’argomento che a volte si sente, quel banalissimo dato storico, sono i film girati apposta per quelli che sono cresciuti giocando a Resident Evil, non ci accontenta neanche un po’.
L’idea che l’industria dell’intrattenimento sia sensibile a tutto ciò che nel suo universo si muove e che ogni sua cellula faccia tesoro di ciò che accade in ogni più remoto apparato è certamente fondata. Per cui è vero che il passaggio di un soggetto dal videogioco al film, dalla serie di romanzi ai telefilm, dal fumetto al cartone animato è frutto di una strategia di marketing copycat che ripete una formula vincente in un nuovo settore. Ma non basta da sola a giustificare l’ondata pop che ha portato gli zombi in serie televisive fin qualche anno fa impensabili, oltre che a Hollywood, nei fumetti popolari, e da qualche tempo anche nella narrativa di genere.
Troppo banale e troppo parziale. Non tiene conto di tutta quella fetta di pubblico che dai videogiochi si tiene alla larga.
Molti hanno tentato un volo pindarico in più, e voluto vedere nella figura dello zombi, e della trasmissione del morbo attraverso il morso, una metafora della paranoia del contagio, inaugurata con l’AIDS e proseguita con le varie fobie contemporanee come quella per l’ebola, quindi rifletterebbe le nostre ansie attuali.
Quelle indotte dai giornali, che poi sono sempre le meno importanti, aggiungiamo noi.
E’ una prospettiva formalmente corretta, certo, ma per chi si concentra solo sulla superficie delle cose.
Per chi ha bisogno di un tema “da giornalista”. Non è sbagliato, ma pone la questione in una prospettiva che non riesce ad emanciparsi dalla dimensione estetica, si concentra solo sul “ritornante” in quanto tale, non sulle pellicole che lo mettono in scena e non spiega perché, per esempio, non esistano opere di massa che ne facciano un uso diverso come accade da decenni col vampiro , con tutta quella sterminata letteratura che ne fa un eroe. Se tutto si riducesse solo a quello, il morto vivente, come se fosse fatto di materiale plastico, verrebbe manipolato rimodellato, ed esplorato in lungo e in largo come da decenni accade con svariate figure dell’orrore filmico e non: dai poc’anzi citati vampiri umanizzati di Ann Rice e della Meyer, al Frankenstein romantico impersonato da Johnny Depp in Edward Mani di Forbice.
Il morto vivente al centro della scena, insomma, non lo si è mai visto.
Il punto è che lo zombi, o meglio ciò a cui ci riferiamo con la parola nel linguaggio comune, non è il vampiro. Non è una figura mitologica e non emerge dal folklore. Se avessi chiesto a mia nonna cosa fosse uno zombi, non avrebbe saputo rispondermi. Non ha (quasi) nulla in comune neppure con la credenza haitiana da cui prende in prestito il nome, se non il fatto di essere del tutto demente.
Il morto vivente di questi film è un prodotto recente. Un’invenzione squisitamente cinematografica, risultato di un patchwork culturale che ha qualcosa in comune col vampiro, con lo zombi haitiano, e con le psicosi di oggi.
Ma non quelle, tutto sommato rassicuranti perché “se le conosci le eviti”, a cui si riferiscono i giornalisti che vorrebbero il cencioso spauracchio come testimonial dell’AIDS, dell’ebola, della tossicodipendenza e perché no, pure della mononucleosi e dello scolo.
C’è molto di più.
Lo zombi del cinema horror è un essere incosciente e famelico, privo di sentimenti.
Non ha nulla che lo distingua dai suoi simili se non l’involucro carnale e i cenci con cui era vestito al momento del contagio.
Non ha doti particolari, anzi: è debole e lo si abbatte facilmente. Un colpo in testa e passa la paura.
Non ha niente di speciale. Non ha identità. La sua grande forza è solo nel numero, nella informe mancanza di identità della massa. Nella pressione che non si può neppure definire sistematica, ma impulsiva, monomaniaca. La pressione di un branco di decerebrati né forti né veloci, ma costanti e insistenti, come solo gli stupidi possono essere.
Non ha capacità astrattive e si limita a cercare di soddisfare uno ed un solo istinto primario.
Se non ti divora del tutto, col suo morso ti contagia e ti rende simile a lui. Con il contagio acquista forza perché aggiunge un nuovo soldato al suo famelico esercito. Poco cambia, comunque che tu sia il suo cibo o uno come lui.
In ogni caso la sua fame non ha nulla a che fare con il nutrimento. E’ più simile alla pulsione di uno stupratore, di un masturbatore compulsivo, di un don Giovanni, di un serial killer. Una insopprimibile pulsione che vede nell’atto in sé la propria causa.
Se non ti hanno fischiato le orecchie nelle ultime righe, potresti essere un puro, ma è più probabile che tu sia già uno zombi perché, vedi, lo zombi è l’uomo che il capitalismo vorrebbe come perfetto terminale della macchina economica. L’uomo fatto tubo digerente.
Lo zombi è, più di tutto, una rappresentazione in chiave mitologica dell’uomo postmoderno.
Fatto a immagine e somiglianza di un Dio che è morto.
Non pensa con la sua testa, non ha qualità, cerca solo di soddisfare bisogni primari. Non ha etica perché non ha un io, o forse è meglio dire che ha troppi io, nessuno capace di sedersi abbastanza a lungo sul trono della sua volontà e divenire “centro di gravità” più o meno permanente. La sua forza è nel numero, la sua arma più letale è nell’omologazione. E chi non è come lui, chi non subisce la sua omologazione, muore. Il mondo dell’uomo postmoderno non vuole essere occupato dai diversi. Se non vuoi essere triturato, devi omologarti.
Se non vuoi essere mangiato, devi farti contagiare.
Ancora non ti fischiano le orecchie?
Dovrebbero.
Cosa succede di solito nei film di zombi?
Lo abbiamo già detto: delle persone cercano di resistere alla marea di morte che avanza, barricandosi da qualche parte.
Chi sono queste persone?
Gruppi di individui decisi a non cedere, a non morire e a non trasformarsi a propria volta, in morti viventi.
C’è quindi una netta contrapposizione tra la massa indistinta e maleodorante dei non-morti, e il gruppo degli individui che cercano di resistere, di solito fortemente caratterizzati nelle psicologie, nella storia personale, anche quando stereotipati. Possono sì rispondere al luogo comune dell’eroe bello e dannato, dello sbirro tutto d’un pezzo, del delinquente che si redime, del padre di famiglia o del giornalista senza scrupoli, ma anche quando coacervo di luoghi comuni la loro storia è molto rilevante nel film. Quasi come se l’invasione degli zombi non fosse che la scenografia per una rappresentazione teatrale parossistica della commedia umana. Perché in questi film, indipendentemente dalla riuscita dell’opera, al centro dell’attenzione sono le psicologie dei personaggi più che l’azione in senso stretto.
Le psicologie sono, a ben vedere, ciò che distingue gli eroi dai morti viventi, che di psiche sono totalmente privi.
La traccia più significativa in questo senso l’ha segnata Romero col secondo capitolo della sua saga inaugurata con la notte dei morti viventi. Quello “Zombi” (Dawn of the Living Dead) che in italia abbiamo visto rimaneggiato, nella colonna sonora e nel montaggio, da Dario Argento.
L’arroccamento in un centro commerciale aveva un doppio significato che viene ribadito in tutte le pellicole sul tema.
Il centro commerciale è chiuso, sigillato.
Gli zombi, da fuori, vogliono entrare.
Sono una massa.
“Perché vogliono entrare qui?” Chiede un personaggio.
“Perché questo posto per loro era importante quando erano vivi“, risponde il suo compagno.
In Italia, nel 79, era impensabile comprendere la carica di critica sociale racchiusa in questo semplice scambio di battute e nella contrapposizione di cui poco sopra. Non avevamo né centri commerciali, né megastore. Oggi che anche noi ci siamo giocati l’anima per un capannone in più, pieno di cazzate di cui non abbiamo bisogno, possiamo comprendere il messaggio che Romero intendeva lanciare.
E vedere, nella massa di non morti che si riversa nel centro commerciale dopo giorni di assedio, quando le barricate vengono sfondate, la massa di non vivi che vediamo riversarsi nelle corsie del Mediaworld all’uscita di un nuovo iphone, dopo ore di attesa all’ingresso, quando le saracinesche vengono alzate.
E viceversa.
…e i più audaci tra noi magari possono sognare di impugnare delle armi automatiche per puntualizzare ciò che in verità è già implicito nel loro comportamento: siete già morti.
Molto efficace, in questa prospettiva, è lo slogan pubblicitario che accompagnava la locandina di un film di Fulci quasi omonimo del titolo italiano di Romero, e per questo in italia intitolato Zombi 2.
Lo slogan recitava: “ti mangeremo”, seguito poi dall’allarmante “i morti sono tra noi!”, una sorta di grido d’allarme che ricorda il tema del bellissimo essi vivono, di John Carpenter, film che non parla di zombi nel senso che stiamo usando in questa sede, ma che ha molto da dire in materia di invasione, contagio psichico e omologazione.
Poi c’è la questione del cosa accade tra i personaggi nei luoghi in cui si barricano.
Di solito una storia d’amore, lo scioglimento o l’inasprimento di antichi conflitti, e ovviamente si cerca di dare una parvenza di “vita normale” al disperato tentativo di sopravvivenza in atto.
La voglia di reintegrare un nucleo familiare, sociale, mentre tutto va allo sfascio. E farlo in luoghi dove di solito ciò non accade e non potrebbe mai accadere: negozi, ristoranti, parcheggi.
Nel film di Romero c’è pure una cena a lume di candela nell’area ristorazione del centro commerciale dove la storia è ambientata, con tanto di consegna di un anello di fidanzamento.
Ha il sapore di una recita in cui i personaggi coinvolti cercano di credere a tutti i costi pur non riuscendovi fino in fondo.
L’insopprimibile desiderio di tenere salde le certezze che fanno della nostra vita qualcosa di nostro, qualcosa a cui il nostro io possa aggrapparsi per ricordarsi di esserci.
Dove si barricano gli eroi di queste pellicole?
Abbiamo detto centri commerciali, ospedali, stazioni di servizio, aeroporti, grandi catene di ristoranti, quelli che il sociologo francese Marc Augè ha chiamato “non luoghi”.
La teoria dei non luoghi, che ci limitiamo a mostrare di volata per quel che ne abbiamo capito noi rimandando al lettore curioso eventuali approfondimenti, si riferisce a tutti quei posti che hanno la caratteristica di non avere nulla che possa permettere ad un soggetto di “farli propri”, luoghi senza una storia, costruiti per assolvere degli scopi specifici. Commerciali. Professionali. Sanitari. La tesi di molti è che questi non luoghi siano in aumento, un po’ come il Nulla del romanzo La Storia Infinita.
Potremmo definirli, nel modo meno tecnico possibile come posti freddi in cui non si vive ma si passa. La nostra osservazione è che il mondo moderno li promuova e anzi cerchi di occupare la più ampia superficie possibile del pianeta con questi ambienti il cui messaggio, per chi vi transita, è: riga dritto, perché qui sei ospite nostro, e per giunta di passaggio.
Niente a che vedere col memento mori, che metteva te e il destino della tua anima al centro della questione.
I non luoghi e le loro regole, estetiche e comportamentali, ti stanno soltanto dicendo non rompere i coglioni.
E sono solitamente rispettati dall’uomo comune come luoghi sacri.
Ma, nel totale rovesciamento dell’ordine costituito che quei film mettono in scena (rovesciamento in cui spesso il delinquente reietto diventa eroe e il borghese si rivela un subumano inetto e meschino), i protagonisti fanno uno sfregio a quella che è una delle più aberranti ideazioni dell’uomo: un luogo da cui l’elemento umano è espunto. Il luogo antiumanista per eccellenza. E infatti, se i non luoghi nella nostra esperienza quotidiana sono tutti uguali ed asettici, in quei film vengono “personalizzati”, a volte per i disastri che li hanno sfregiati, a volte per il desiderio dei protagonisti di trasformarli in qualcosa di vivibile, per la voglia di chiamarli “casa”.
Come gli innamorati incidono il proprio nome sulla loro panchina, gli studenti scrivono il proprio nome sul loro banco, o i carcerati nella loro cella contano i giorni sui muri, così i sopravvissuti dei film di zombi fanno quello che ha sempre fatto l’uomo dai tempi in cui incideva sulle pareti delle caverne la sua storia.
Cercano di lasciare una traccia, una memoria storica attraverso cui riconoscere se stessi.
Tengono viva una fiamma, quella intorno alla quale gli uomini si sono riuniti e hanno costituito prima dei clan, poi la civiltà. Lo fanno perché intuiscono che, spenta la fiammella dell’identità propria e del proprio gruppo sociale, non resterà più nulla e finirebbero per essere indifferenziati proprio come il branco di zombi che dà loro la caccia.
In un luogo asettico e standardizzato, solo l’originalità di una eccezione permette alla memoria di attecchire.
Guarda caso, questa è la cosa che più di tutte le altre stanno cercando di toglierti sanzionando tutto ciò che esuli dalla prevedibilità dell’omologazione.
Quella che il mondo moderno, consumista, capitalista, omologato ed omologante, sta cercando di spegnere (e solo perché un uomo senza storia e senza famiglia, senza aspirazioni né obiettivi, è un più perfetto lavoratore e un più perfetto consumatore, insomma un cittadino esemplare) è in realtà ciò che sta alla base della civiltà e ci ha permesso di uscire dalle caverne e fondare imperi.
Come una cicatrice rende un volto “unico”, così quei luoghi asettici, quando contaminati dal virus “uomo”, assumono una dimensione più umana che nella prospettiva dei custodi dei non luoghi (commessi, addetti alla sicurezza, operatori, progettisti)è inaccettabile.
Ovviamente: agli occhi del sistema e dei suoi mastini, l’originalità è un problema, una disfunzione, e chi se ne fa portatore diventa uno scarafaggio da schiacciare. Provate a cantare ad alta voce per i corridoi di un centro commerciale. Anzi, meglio, portatevi una chitarra e mettetevi a suonare. Sedetevi per terra in mezzo a una ipercoop, o correte col carrello come Pozzetto in da grande. O, se volete, provate a restare immobili senza fare o dire niente, come si dice facesse Socrate per ore, nei pressi delle casse di un grande magazzino e contate i secondi che vi separano da quando verrete intercettati e invitati a smettere. Non vogliamo istigare nessuno a tenere comportamenti eccentrici o folli, né alcuno di quelli che abbiamo citato a titolo di esempio è la massima aspirazione di un essere umano. Ma ci premeva solo sottolineare quanto il nostro guinzaglio sia corto.
Il nemico, nei film di zombi, non è solo dunque il morto vivente che abbiamo visto portare con sé la metafora degli schiavi della macchina capitalista, ma anche, e forse soprattutto, l’abbrutimento che deriva dalla privazione dell’identità sociale dell’individuo, rappresentata visivamente dagli scenari della nostra società dei consumi. E questa lotta contro la privazione di identità è genialmente espressa prima da Romero, poi dai suoi epigoni in varie declinazioni e con risultati altalenanti, con lo stupro della presunta sacralità del centro commerciale, un luogo la cui violazione, nella vita di tutti giorni, ha conseguenze ben più gravi del bestemmiare in chiesa (la nostra è a ben vedere una società già de-composta).
La lotta è impari, disperata.
Nonostante l’assoluta disparità delle forze in gioco, dietro alle barricate, gli eroi di quelle storie cercano di resistere, portandosi dietro il loro patrimonio esperienziale e storico.
C’è un romanzo di Mc Carthy da cui è stato tratto un bel film con Viggo Mortersen. Non parla di morti viventi, ma condivide le atmosfere di questo sottogenere del cinema horror. Il romanzo si intitola La Strada, e si svolge in un mondo post apocalittico come questo: ci sono uomini degradati oltremisura, tragicamente simili a zombi, bande che praticano il cannibalismo e tutto ciò che conosciamo è andato totalmente a puttane. In uno scenario desolante che potrebbe benissimo essere teatro della versione letteraria di Ken il Guerriero, un padre e un figlio attraversano un’america devastata.
Questo breve dialogo è riportato anche in quarta di copertina:
«Ce la caveremo, vero, papà?
Sí. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sí. Perché noi portiamo il fuoco».
Certa fantascienza è sociologia mascherata da intrattenimento (tanto che spesso viene definita “narrativa d’anticipazione”), e così sono questi film, cronache di resistenza umana in un mondo disumano e disumanizzato.
Cronache di una lotta senza quartiere che sta avendo luogo intorno a noi e dentro di noi (piccola e grande Jihad).
Cronache di una guerra tra noi (dove “noi” è l’identità) e loro (dove “loro” è tutto ciò che cerca di togliercela).
La narrazione in forma mitologica ed avvincente, fantasiosa ed accettabile, di ciò che sta accadendo sotto gli occhi di chi ancora sa vedere. La trasposizione dello squallore, del marciume, della morte non fisica e della necrofilia che ci circonda, attraverso la poetica cinematografica del morto vivente.
Non c’è via di fuga.
Perché non esiste cura al morso del morto vivente. Puoi solo evitarlo il più a lungo possibile. E perché non sei più nella casa in cui sei nato, con le sue rassicuranti certezze. Puoi solo, con la forza della disperazione, cercare di costruirlo tu un posto simile. Insieme coi pochi che ti sono vicini, un nucleo affettivo intorno a cui sperare che la vita, come tu la conosci, continui. Puoi solo combattere per guadagnare ogni centimetro quadrato di terra che intendi occupare e chiamarlo casa.
L’assedio dei morti viventi è costante, e tutto intorno a te, come Vodafone e Banca Mediolanum.
Non esiste una via di uscita se non quella che ti apri tu a suon di testate. E in questa realtà non sono loro a dover farsi strada a graffi e morsi, ma tu. L’unica cosa che puoi fare è costruire delle barricate entro cui accogliere accanto a te i pochi che, per dirla con Ungaretti, ti corrispondono. Ma credimi se ti dico che sono DAVVERO pochi, anche perché a differenza dei non-morti, i non-vivi che ti circondano non portano evidenti segni esteriori del contagio. E alcuni, perfettamente consci di esserne affetti, celano di proposito i segni della malattia che li affligge finché non sono abbastanza vicini da poterti mordere.
O per mangiarti, o per contagiarti.
E non è detto che non ti mangino comunque, i non-vivi, anche dopo averti contagiato.
In questo gli zombi si rivelano decisamente più innocui. Eh già… la vita non è un film, ha cantato qualcuno.
Vie di fuga non ce ne sono.
L’unica cosa che puoi fare è cedere o continuare a difendere la tua postazione il più a lungo possibile.
Tenere la postazione e combattere.
Perché l’epidemia ha contagiato tutto il mondo e non esiste via di fuga.
Solo lotta.
C’è una bella canzone del rapper siculo-milanese Marracash, si intitola “Nè cura nè luogo” (link).
Il video mostra scene di desolazione urbana. Facce tristi ma non pavide nei parcheggi, ai piedi dei casermoni popolari, davanti ai videopoker, nei supermercati e sul cavalcavia di una tangenziale.
Individui smarriti dentro non luoghi, insomma.
Poi due immagini di resistenza umana: un pugile, solo, si allena in una palestra vuota e gelida, e una signora anziana, che potrebbe benissimo essere nostra nonna visto come stanno andando le cose, ruba un insaccato dal banco frigo di un supermercato imboscandolo sotto il cappotto (proprio su questa scena il cantante ci dice che non c’è una cura per l’anima quindi guido la carica)
.
Un verso della canzone più avanti, sembra parlare di contagio psichico quando recita: il capitalismo mi ha reso competitivo e non c’è schiavo più grande di chi pensa di essere libero.
In quel momento la macchina da presa si concentra su un uomo dall’aria volgare e avida che si infila in bocca una grandissima forchettata di spaghetti. Un primo piano sgradevole che non ha nulla da invidiare allo sbudellamento del motociclista nello “Zombi” di Romero.
L’inquadratura successiva mostra una panoramica su una tavola imbandita e si ferma su una torta sulla quale, con lo zucchero a velo, è stata disegnata l’Italia.
Il ritornello si rivolge a noi, senza mettere in scena morti viventi e scenari apocalittici: non c’è cura né luogo/quindi resta e combatti.
Non occorre aggiungere altro.
E non ci serve più l’allegoria del morto vivente per vedere l’orrore che ci circonda.
Altro che intrattenimento.
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Articolo molto interessante… Complimenti
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Grazie! Questo è il primo commento che ricevo. 🙂
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molto molto interessante
” è debole e lo si abbatte facilmente”.. proprio come noi, quando non fantastichiamo di essere gli eroi…
non li avevo mai visti da questo punto di vista….
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Riflessioni pienamente condivisibili espresse con passione. Sono lo specchio di quello che avviene nella società odierna, se solo si faccia il piccolo sforzo di umiltà di riconoscerlo.
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Complimenti veramente un bell’articolo..molto arguto
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Grazie per i complimenti
🙂