Un intellettuale viene invitato al talk show di una nota rete privata. Gli viene posta una domanda. Perché il patrimonio artistico italiano è sparso in musei dislocati in un tutto il territorio a differenza, per esempio, delle realtà francesi o britanniche concentrate in pochi musei come il Louvre o il British Museum.
Per spiegare la realtà italiana, l’intervistato fa riferimento ai patrimoni artistici dei regni pre-unitari. La registrazione viene interrotta.
Così non va bene.
Perché?
E’ troppo difficile per gli spettatori. Deve essere più semplice.
OK
Un altro Ciack (o come lo si chiama nel gergo televisivo).
L’intellettuale esprime lo stesso concetto con un giro di parole meno diretto ma dal lessico più accessibile. Comunque continua a fare riferimento ai regni esistenti prima dell’unità d’Italia.
Viene interrotto di nuovo. Non va bene nemmeno così gli si dice.
Perchè.
Niente contestualizzazioni storiche.
Perché.
Il nostro pubblico non deve elaborare. Quindi dobbiamo fornirgli un’informazione che non rimandi ad altri concetti.
Ricomincia la registrazione. Da lì in poi le riprese prendono un taglio farsesco perché l’intellettuale, in difficoltà nel cercare circonlocuzioni adeguate, non riesce a dire nulla. Alla fine il messaggio ne esce cambiato.
Non siamo in un prequel di 1984, né in un film di Veerhoven, e men che meno in un fumetto di Frank Miller sulla falsariga di Give me Liberty o del Ritorno del Cavaliere Oscuro. Non siamo in un libro di Bradbury, Huxley o Philip K. Dick.
Siamo su Italia7 ed è il 2015.
E la scena che abbiamo descritto, benché svoltasi in uno studio televisivo, non l’abbiamo ovviamente vista su uno schermo, ma ci è stata raccontata da una conoscente del protagonista intervistato.
Per inciso: non abbiamo usato la parola “intellettuale” con il carico di apprezzamento e reverenza che molti rivolgono a coloro i quali così possono essere definiti, ma solo con l’accezione più cruda possibile per identificare una persona il cui lavoro è prevalentemente intellettuale.
Prima di qualsiasi considerazione in merito all’episodio sopra narrato, sarebbe opportuno guardare questo interessante filmato risalente al 1975.
https://www.youtube.com/watch?v=MxT12xgsKJ0
Come posizione la posizione è brutta, è falsa […] perchè la televisione è un medium di massa, e come medium di massa non può che mercificarci e alienarci. […] NON POSSO DIRE TUTTO CIO’ CHE VOGLIO non posso perché verrei accusato di vilipendio […] di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori io stesso non vorrei dire certe cose e quindi mi autocensuro […] nel momento in cui qualcuno ci guarda, ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore. Ed è un rapporto spaventosamente antidemocratico […] le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto […] mettiamo che invece di esserci noi qui ci fosse anche una persona assolutamente umile, un analfabeta interrogato da un’intervistatore. L‘insieme della cosa vista dal video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente perché viene sempre data come da una cattedra e parlare dal video è come parlare sempre ex cathedra anche quando questo è mascherato da democraticità.
Le parole, per molti versi estremamente umane (“di fronte alla sprovvedutezza di certi ascoltatori io stesso mi autocensurerei”, dice… l’esatto contrario dello snobismo radical chic e del gusto elitario per una cultura spesso inutile del ceto medio semicolto) del mai abbastanza compianto Pier Paolo Pasolini non riteniamo necessitino di essere spiegate. Il messaggio è chiaro: benché il mezzo di comunicazione di massa si mascheri da strumento di informazione democratica, è in realtà uno strumento autoritario, un guinzaglio: offre, anzi impone, un’unica prospettiva sulla realtà. Una comunicazione univoca “da inferiore a superiore”. Non serve una laurea in Psicologia o Scienze della Comunicazione per comprendere un simile concetto. E, senza voler addentrarsi nell’aspetto “giallistico” della sua morte, che aprirebbe una serie di considerazioni, congetture e divagazioni inadatte a questa sede, è interessante osservare come una voce così fuori dall’ottimistico coro che, a distanza di venti anni dalla sua nascita, ancora acclamava l’avvento della televisione come una conquista, sia stato spenta in un modo tanto brutale. Che la sua morte non sia stata altro che una truce vicenda avvenuta nel mondo dei “ragazzi di vita”, o che ci sia dietro una macchinazione per spegnere la voce di un personaggio “scomodo” proprio mentre questo portava avanti un’inchiesta sulla morte di Mattei e sulle impronte rosso sangue di cui è imbrattata la storia dell’Italia e dell’Eni (il libro che non ha mai finito si intitolava appunto “Petrolio”), quello che all’osservatore attento ai segni dei tempi, per dirla alla Guénon, resta è che il due novembre 1975 sul lido di Ostia è stato schiacciato (letteralmente, visto che i suoi assalitori, dopo averlo preso a sprangate e malmenato gli sono passati sopra con la macchina causando lo scoppio del cuore) un usignolo che da solo cercava di immettere una melodia di verità nell’ipocrita frastuono mediatico di quegli anni.
C’è una cosa che salta all’occhio guardando il filmato: benché rispettato come intellettuale dai personaggi presenti, sembra che Pasolini sia trattato come una specie di “bestia rara”, come un disadattato (si parla di solitudine, di dichiarazione di fede aristocratica, del fatto che le sue affermazioni sulla mancata libertà espressiva all’interno di un mezzo di comunicazione di massa siano in realtà false). E’ percepibile quell’atteggiamento di rispettosa pietà che si ha nei confronti di individui percepiti come “diversi”. Il vicino di casa omosessuale, il “ragazzo difficile ma sensibile” a scuola, il collega di lavoro “strano ma in gamba” e tante altre figure “ai margini”. Si ha l’impressione che lì si stia maneggiando qualcosa “che scotta”.
E’ come se fosse presente una implicita autorità invisibile che impone agli interlocutori di Pier Paolo di “arginare” le sue affermazioni, percepite come “scomode”.
L’autorità intesa come censura sicuramente c’è, si sa. Ma c’è qualcosa di più che possiamo goffamente definire pre-televisivo in questo filmato: si ha la sensazione che quella forma di “censura” verrebbe realizzata anche a telecamere spente, come se la verità della “democraticità della comunicazione di massa” fosse qualcosa di accettato, indiscutibile, assiomatico. E’ come se Pasolini stesse profanando un simbolo sacro. E se i fedeli corressero ai ripari.
Oggi la sinistra rivendica l’appartenenza di Pasolini alle sue schiere, mentre certa destra con in testa quella macchietta da cabaret chiamata Camillo Langone, con riferimento al suo “tradizionalismo” cerca di balbettare “era uno di noi”. Sarebbe opportuno ricordare invece che il PCI lo aveva cacciato per indegnità morale, né la destra aveva manifestato significative aperture al personaggio (del resto l’uso un po’ americano che fa della parola “fascista” anche in questo video non poteva non renderlo inviso ai militanti di allora).
Pasolini era solo.
Solo perché, come ogni spirito realmente critico, su ogni cosa aveva una sua propria idea che difficilmente si conformava al Pensiero Unico Ufficiale.
E quando la tua mente prende il volo ti accorgi che sei rimasto solo, Canta Rino Gaetano nella canzone “ti ti ti ti”(link).
E il filmato che abbiamo visto lo esprime chiaramente.
La logica del suo discorso è tutt’altro che difficile da cogliere, e basta non essere totalmente obnubilato per comprendere che la televisione non è tanto uno strumento di informazione, quanto piuttosto uno strumento di cultura e propaganda, quindi, potremmo dire, di “disinformazione controllata” o “disinformazione ufficiale”.
Non serve essere dei fanatici paranoici delle più fantasiose teorie complottiste per convenire sul fatto che da quando la televisione è comparsa, la realtà è diventata un’altra.
Certo, quando esistevano solo i cinegiornali, la ritualità di recarsi al cinema e ricevere le imbeccate dall’alto come in chiesa la cosa era molto più percepibile, così come la radio, un altoparlante piazzato in casa e nei bar, ricordava forse i megafoni dei campi di prigionia sovietici e nazisti.
Ma credere di essere usciti da un mondo arcaico, fascista, o come lo si vuol definire solo perché le imbeccate dall’alto le si riceve supportate da immagini che si ritengono veritiere manco la TV fosse una sfera di cristallo è quantomeno ingenuo come ingenuo è chi oggi crede che il web offra la possibilità di una informazione libera solo perché c’è una grande vastità di scelta.
La cosa era particolarmente evidente, perlomeno a un occhio esterno od estraniato, quando c’era solo la televisione di stato, ma non è cambiata con l’immissione delle reti private e locali. Anzi, la nascita di esse ha solo diversificato l’offerta, ma il controllo che sta sopra (non “dietro le quinte”, ma “sopra le quinte”) è rimasto lo stesso.
Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare della necessità “informazione libera”, soprattutto dagli anni novanta. Da quando, cioè, in politica è entrato un uomo che sui media ha fondato la sua fortuna come Silvio Berlusconi. Ma in fondo Berlusconi ha solo reso esplicita una verità di Pulcinella condensando in sé contemporaneamente le oligarchie economiche e della comunicazione di massa, oltre che il potere politico (o per meglio dire parte di esso)su cui il soft power democratico si fonda. Curioso che ora che la sua “minaccia” è stata apparentemente scongiurata, tutti siano tornati a dormire, ma in fondo si trattava di un copione già scritto. Sia quello della sua ascesa, sia quello dell’imponente movimento di forze sociali di opposizione, sia la quello della sua caduta. Siamo stati tutti testimoni di un grande spettacolo messo in scena per noi, uno spettacolo la cui parabola ha avuto uno scopo, e cioè ridurre la fiducia e il grado di partecipazione della popolazione alla politica rendendo esplicito ciò che prima non lo era.
E dove si è svolto questo spettacolo?
La risposta è sempre lì: in tutti i mezzi di comunicazione di massa, ma in particolar modo in televisione. La televisione mescola insieme immagini e parole in un modo ipnotico, ti dà informazioni che sono al tempo stesso persuasive e spaventosamente superficiali, e districarsi dalle sue spire è uno sforzo che non può non ricordare il Laocoonte, la sua disperata espressione, i suoi muscoli esasperati nello sforzo che, almeno nel mito, è destinato a fallire. Nello studio di Enzo Biagi vediamo una persona che cerca di esprimere questo concetto, ma è in una qualche misura messa “sotto scacco” dai suoi interlocutori.
La scena è paradigmatica nella sua malvagia prepotenza, e se torniamo con la memoria a un passato più recente, non è difficile ricordare il salotto di Maurizio Costanzo come sua evoluzione.
Sono tante le forge in cui, in televisione si è battuto il conio del Pensiero Unico, ma il Teatro Parioli di Roma è stato per almeno un decennio la più visibile, la più seguita.
Un luogo in cui, con la sinistra abilità del peggiore dei diavoli, il “padrone di casa” creava la bagarre pilotando discussioni in cui si mettevano faccia a faccia preti, attori, politici, pornostar, maghi, fenomeni da baraccone, rappresentanti delle istituzioni, drag queen e cantanti. Quel salotto era un imbuto, un filtro. E lo scopo era quello di far passare un messaggio. Il messaggio poteva cambiare, e anche contraddirsi nel tempo, ma si riassumeva più o meno in questo: Guardate i vostri eroi, le vostre eroine come mettono all’angolo questo idiota . Quante persone, negli anni, sono passate per quel filtro?
Tutte le persone di spicco del mondo della comunicazione.
E, se c’era qualche voce dissenziente, questa veniva invitata e messa nel tritacarne. Siete ancora convinti che l’opinione pubblica sia una cosa che “nasce dalla gente”?
Malgrado tutte le risposte ottimistiche che cercherete di darvi la risposta resta una sola: NO. Forse non è facile ammetterlo. Tutti ci sentiamo, a vario titolo, “liberi”. Ma si tratta di libertà illusorie. Siamo in realtà schiavi di automatismi, meccanismi psicologici che alcuni “maghi neri” sanno manipolare per il loro tornaconto. Riconoscere questo stato delle cose è il primo passo per smettere di farselo mettere in culo.
Le tecniche di cui gli autori della trasmissione facevano uso per veicolare i loro messaggi delegittimando le opinioni dissenzienti erano tante:
-l’accurata selezione degli ospiti, che garantiva sempre dei cocktail esplosivi.
-Le ovvie raccomandazioni “dietro le quinte” su quello che si poteva e non si poteva dire, e soprattutto:
–l’uso strategico della posizione di Costanzo rispetto agli ospiti.
Lui non stava su una poltrona come i suoi ospiti, ma su una specie di alto sgabello da bar che spostava di continuo per essere vicino ora all’uno, ora all’altro interlocutore. Rispetto all’interlocutore, inoltre, il suo trespolo veniva collocato sempre in una posizione leggermente arretrata. In poche parole l’obeso avvoltoio stava alle spalle dei suoi interlocutori. Può sembrare una cosa da poco, ma dietro questa banalissima osservazione sta la la lettura di una precisa strategia: gli ospiti avevano le telecamere e il pubblico sotto il palco (le telecamere ovviamente anche di lato), il moderatore alle spalle, in una posizione rialzata. Per rivolgersi a lui avrebbero dovuto girarsi, ma ovviamente le esigenze di scena imponevano di guardare le telecamere per la maggior parte del tempo. Costanzo invece nel suo campo visivo aveva tutto, e soprattutto non doveva curarsi delle telecamere perché quella era “casa sua”. Non era lì a promuovere la propria immagine. Era un problema delle persone di spettacolo che si immolavano a quel rituale notturno fronteggiare le telecamere. Insomma, la posizione del ciccione coi baffi era una posizione di netto vantaggio perché la sua attenzione non era mai divisa, laddove gli ospiti avevano ce l’avevano letteralmente dispersa (a tal proposito rimandiamo al nostro articolo corso di difesa contro le arti oscure, dove parliamo anche di “divisione dell’attenzione”) . Notare poi che solo molto di rado Costanzo guardava negli occhi gli interlocutori. Tutte tecniche che usano anche gli psicologi e i tecnici della comunicazione nelle grandi aziende.
Lo abbiamo sperimentato anche sulla nostra pelle allorché ci trovammo con uno psicologo alle spalle, una lavagna fra noi e lui, l’audience dei colleghi davanti e un altro tizio che prendeva appunti di lato. Ogni volta che volgevamo lo sguardo allo psicologo, ci veniva intimato di fissare i colleghi. Lo chiamavano corso di aggiornamento, ma sembrava una incrocio fra la riunione di una setta next age e una terapia di gruppo. E lo scopo non dichiarato era solo fare un “profiling” di tutti i dipendenti.
Insomma il padrone di quel mattatoio aveva nelle sue mani la reputazione di tutta quella gente, garantita dalle ovazioni del pubblico (sia quello casalingo sia quello caciarone del teatro) che gli attribuiva l’autorità di un insegnate di scuola. Non solo: lo stesso Costanzo molto spesso, abbandonando il suo ruolo di semplice moderatore, entrava nella bagarre come deus ex machina. A volte semplicemente per sedare situazioni “calde”, ma spesso anche per contribuire al linciaggio a cui alcuni invitati venivano sottoposti per le loro “idee”. Quasi sempre il commento musicale (un pianoforte agli albori, un’orchestra in seguito) poneva gli accenti sulle situazioni più grottesche e non di rado veniva utilizzato per zittire il soggetto ritenuto scomodo. Se Pasolini, invece che da Biagi nel ’75 fosse stato ospite di Costanzo nell’86, non sarebbe semplicemente stato contraddetto dai suoi interlocutori, ma interrotto, dileggiato, sbeffeggiato, e coperto dalla prepotenza una musica da circo.
Si è scelto questo esempio non perché sia l’unico o perché non ce ne siano stati altri in seguito (Vespa fra gli altri, ma pure i talk show con minori pretese culturali del pomeriggio), ma perché in quel teatro si è letteralmente creata l’opinione pubblica che ancora oggi va per la maggiore: acritico democratismo, libertà borghesi, ecumenismo, “libertà” sessuale percepita ed imposta come una morale di segno opposto, rifiuto del “vecchio” e accoglimento di tutto ciò che è nuovo. Insomma, estremismo di centro, che non significa nulla ma va bene all’establishment.
E l’esempio è ancora più “forte” perché tutto ciò veniva promosso in un teatro, quasi a voler sottolinearne, per chi era in grado di coglierla, la dimensione eminentemente spettacolare.
Una caterva di allucinazioni indotte.
C’è un teatro, nel caso della trasmissione di Costanzo un teatro vero e proprio con tanto di palco, quinte e sipario, e ci sono degli attori. E gli attori devono leggere dei copioni, comunque seguire un collaudato canovaccio da cui difficilmente ci si discosta.
Ma cosa succede se dalla lista delle parole che si possono dire vengono espunte quelle ritenute scomode? Cosa succede se non si vogliono far passare certi concetti?
Lo abbiamo visto nell’esempio di apertura, quello dell’ “intellettuale” che parla dei musei.
Diventa impossibile esprimersi, perché la parola non è mero segno linguistico, ma un pensiero solidificato in forma sonora. Se ti tolgo la parola, non puoi esprimere il concetto. In altre parole il tuo discorso ne esce mutilato.
Non è dunque un caso se, da quando la massmedia-crazia si è stabilizzata potendo contare su milioni di strumenti audiotelevisivi (e oggi anche informatici) a farle da megafono, una delle voci più importanti nell’agenda del Potere è stata la manipolazione del linguaggio.
Quella della manipolazione o stravolgimento del linguaggio, è una delle armi più subdolamente invasive in forze al disegno che, al di là di fantasiose teorie complottiste, sta ridefinendo le coordinate psicologiche e culturali della popolazione occidentale. Tale manipolazione avviene sotto tre aspetti fondamentali:
1.Il prestito di parole inglesi tendenti a creare un gergo, una sorta di linguaggio tecnico (si pensi ai tanti prestiti in uso nel giornalismo) che può far venire in mente l’idea della neolingua di 1984 di Orwell.
2.L’attribuzione a determinati vocaboli di significati distanti da quello etimologico originario, spesso attribuendovi anche dei “valori” positivi o negativi di stampo moralistico (si pensi solo alla valenza spregiativa assunta in meno di dieci anni dalla parola “negro”, che non è affatto, come ritengono i più per ignoranza la traduzione di nigger, vocabolo che identifica invece il bruco nero della rapa e che per questo offende tanto in America la gente di colore).
3.La confusione intorno al significato di certe parole trasformate in vere e proprie polisemie.
Se i primi due punti sono tutto sommato riconoscibili senza troppi sforzi da qualsiasi osservatore che abbia vissuto abbastanza a lungo da assistere a certe evoluzioni linguistiche e di costume, il terzo, quello della doppiezza o della molteplicità semantica, passa più inosservato sia perché ne siamo totalmente imbevuti dato il bombardamento informativo cui siamo sottoposti quotidianamente, sia perché quell’uso della lingua ha contaminato tutti gli ambienti didattici e tendiamo a prendere per linguaggio “professionistico” proprio quel gergo in cui molte parole sono snaturate del loro senso.
Non si tratta di un puro e semplice problema di forma, perché il linguaggio, essendo lo strumento con cui la psiche si relaziona con l’esterno, influenza la struttura della psiche stessa e, se ambiguo o poco chiaro, non può non finire con il comprometterne le categorie mentali e dunque pregiudicarne l’analisi del reale. In altre parole: se distruggo gli strumenti della mente o li corrompo, impedisco alla mente di lavorare in modo corretto, esprimersi, e sarà più facile “addestrarmi”.
Interessante, come caso esemplare dell’abuso delle polisemie, è prendere la coppia di opposti “fascismo/democrazia”.
In questa contrapposizione si può riscontrare quanto detto poco sopra al punto due e al punto tre (distanza dal significato originario e polisemia).
Nessuna parola è stata abusata, consumata e resa amorfa, consunta più di “fascismo”.
Dal dopoguerra in poi la parola fascismo è stata del tutto slegata dal suo significato storico diventando qualcosa di assolutamente nebuloso e confuso che ha il vago sapore di “autoritario”, violento”, “totalitario”, “sprezzante nei confronti dei più deboli” o più genericamente “antidemocratico”. Un simbolo del male da affiancare alla parola “Satana”, ormai desueta a causa della secolarizzazione della cultura.
La valenza con cui si usa la parola “fascismo” è sempre fortemente negativa e posta in antitesi con “democrazia”, che al contrario identifica il bene assoluto, il fine, l’ideale finale verso cui ogni esperienza storica dovrebbe tendere.
Il solo nominare l’una o l’altra parola sortisce nell’individuo una serie di reazioni che sono il frutto della stratificazione culturale avvenuta grazie all’uso tutto made in USA della parola. E’ infatti da lì che comincia ad essere usata la parola “fascist” o “fascism” come termine quasi onnicomprensivo(onnicomprensivo di tutto ciò che è malvagio od ingiusto), cosa peraltro valida anche per “nazism”, che subisce, come detto più sopra, l’ulteriore onta di essere del tutto slegata dal concetto di nazional-socialismo e ridotta alla propria sola forma contratta dalla quale è difficile risalire all’originale significato.
E sempre più spesso, persino in contesti accademici, le si utilizza per identificare non una tendenza politica bensì una “personalità”.
Si parla di “pulsioni fasciste”, di “personalità fasciste” e via discorrendo contrapponendole al concetto di “democratico”, anch’esso spesso utilizzato in contesti del tutto avulsi da quello politico, tanto che è spesso usato come sinonimo di “gentile”, “umano”, “equo”, e via zuccherando.
Ecco perché “esportiamo la democrazia” coi metodi del fascismo.
“War is Peace”, la guerra è pace, era uno dei motti nel “1984” di Orwell.
Ancora più curioso (e suscettibile di portare a nuove dimensioni da incubo la realtà sociopolitica contemporanea) è l’uso che si sta facendo da qualche lustro della parola “legalità”, vista ormai come sinonimo di “giustizia”.
E’ un uso che si è iniziato a fare sui giornali, e c’è da dire che l’impatto mediatico di certe irregolarità saltate agli occhi dell’opinione pubblica grazie a star (altro non sono) come Saviano e Travaglio, ha aiutato a far confondere le due parole.
L’impressione che se ne ricava, che si tratti di una strategia voluta o meno, è che si stia cercando di divinizzare l’apparato burocratico istituzionale, tanto da far coincidere giustizia e legalità, semplificazione che qualunque matricola di giurisprudenza potrà definire quantomeno ingenua (per essere gentili). Ma non importa, perché ormai l’uomo della strada ha dignità di parola pari a quella di un giurista plurititolato.
Cosa che va tutta a vantaggio del Potere, il quale dal caos trae la legittimazione a fornire una visione unica.
Si intravede in questo un nuovo totalitarismo dalle sfumature incerte in cui un’assoluzione è sinonimo di innocenza e una condanna di colpevolezza.
Noi che ricordiamo che giustizia e legalità non sempre camminano mano nella mano scegliamo di stare con Capitan Harlock, il pirata dello spazio che quasi tutti i terrestri temevano, ma che per quei terrestri combatteva contro le schiere mazoniane.
E nel cui mondo (totalmente unificato o, se si vuole, globalizzato) proprio dalla televisione, guarda un po’, venivano immesse nelle case dei terrestri delle radiazioni capaci di stordire gli spettatori tenendoli in uno stato di incoscienza pacifica. Siamo appunto in un contesto fantascientifico, quindi si parla di “radiazioi ipnotiche”, ma il messaggio è chiarissimo.
La confusione linguistica dà abbastanza chiaramente il polso della situazione in cui versiamo, situazione di reale “invasione” nel senso di vera e propria invasione mentale, visto che di fatto non siamo più certi nemmeno della nostra lingua. Che certe dinamiche si producano spontaneamente o rispondano a dei precisi intenti teorizzati, è un discorso che merita delle considerazioni a parte, che esulano dagli intenti di questo scritto. Ma ritenere le scelte semantiche come un insieme separato e non collegato alle altre dinamiche culturali e sociali non rende giustizia all’allarmante quadro d’insieme.
E’ opportuno infatti ricordare che il linguaggio non è mero segno linguistico, non è solo “codice di comunicazione”, ma è uno strumento che permette all’individuo di rapportarsi con la realtà, indagarla, osservarla, darle un nome e così facendo contribuisce alla costituzione della forma mentis dell’individuo stesso. Se si priva un soggetto di tale strumento, o gliene si forniscono di menomati, incompleti, eufemistici, il risultato è una totale o parziale incapacità di espressione che pregiudica le stesse facoltà cognitive dell’individuo, una sorta di lobotomia operata attraverso la privazione di un linguaggio proprio.
Poco per volta sta venendo alla luce una neolingua eufemistica, tecnica, debole e sostanzialmente inespressiva che non permette un reale rapporto la realtà e priva gli individui degli strumenti con cui potrebbero, per esempio, speculare, discutere, comprendere, e soprattutto protestare. In altre parole: creare le nuove categorie di pensiero che permetterebbero di agire sulla realtà e modificarla con l’ingegno.
Si sta cercando in altre parole di impedire quello che tutti i grandi uomini hanno sempre fatto per agire sul reale.
Interessante a tal proposito è il sempre più incomprensibile linguaggio dell’economia, diventato ormai linguaggio di prassi per il giornalismo, giacché l’argomento principe da qualche anno a questa parte è proprio l’economia, croce per molti, delizia per pochi.
Chi sia digiuno di determinate nozioni si troverà a fare i conti con una serie di sigle, definizioni, parole straniere confuse insieme in un fritto misto che lo porterà a non comprendere quali siano i termini del problema. Un po’ come se l’inconoscibilità del divino fosse stata sostituita dall’inconoscibilità della smithiana mano invisibile che governa la macchina economica. Rispetto a certi termini ci si deve abbandonare a una accettazione fideistica, a meno di non essere degli esperti o degli studiosi in materia. Questo è a ben vedere un potente mezzo, un reale giogo con cui la stragrande maggioranza della popolazione viene tenuta nell’ignoranza. Una volta si usavano i simboli esoterici. Oggi questo. Ma nulla è cambiato.
Si tratta di una ben precisa strategia di controllo tesa a “sdentare” potenziali tigri che potrebbero rivoltarsi contro i detentori dello status quo. Perché con che mezzi si può contro informare se ogni spettatore di questo teatrino è sottoposto a un lavaggio del cervello che lo porta a
1)non conoscere fino in fondo ciò di cui si sta parlando dato l’asettico tecnicismo di certi vocaboli.
2)diffidare di chi fa uso di certe parole ritenute segno di personalità di tipo negativo.
3)Non immaginare una realtà alternativa allo spettacolare eterno presente (ma con data di scadenza) che il circo massmediatico gli presenta?
La risposta è che, pur essendoci gli strumenti tecnici per contro informare, la maggioranza delle persone è ormai troppo addestrata a diffidare dei “ribelli” intesi con il senso che Junger dava alla parola. E, a screditare ulteriormente coloro che si impegnano a pronunciare il pronunciare il loro sacro “NO” e cercano di portarlo a conoscenza d’altri, c’è la criminalizzazione di certi concetti additati come pericolosi e la confusione linguistica, grazie al rumore prodotto intorno a certe figure accusate spesso di “paranoia complottista”.
Di più: grazie a dei poveri pazzi (o forse grandi furboni) si è diffusa prima nelle librerie, poi nella Rete, una grande quantità di più o meno fantasiose teorie della cospirazione. Incredibili, bizzarre, folli, che mescolano in modo indistricabile fantasia e realtà: alieni, massoneria, scie chimiche, satanisti, lobby varie. Queste non fanno altro che screditare il lavoro di analisi e informazione che alcuni cercano di fare.
E la nuova moda sui social network consiste nel ridere e ridicolizzare, additare come complottista, anzi “gombloddista” o “gomblottaro” chiunque cerchi di osservare le ragioni che stanno dietro a certe scelte politiche o economiche.
La gente ride se sente parlare di “Nuovo Ordine Mondiale”.
Ma se aggiungiamo un articolo indeterminativo prima della formula, se parliam di UN nuovo ordine mondiale, senza tirare fuori gli Illuminati o gli alieni, la cosa non vi fa venire in mente il mondo che è nato dalla globalizzazione? Un mondo molto diverso da quello che solo pochi decenni fa conoscevamo? E dopo l’undici Settembre non è cambiato qualcosa nella nostra percezione della realtà e nella nostra interfaccia coi media? Non amiamo Umberto Eco per una serie di considerazioni che non ha senso fare in questa sede. Limitiamoci a dire che non sfigura nel pantheon in cui inseriamo Costanzo e compagnia. Ma, così come un orologio rotto segna comunque due volte al giorno l’ora esatta, anche lui ogni tanto qualcosa di sensato e condivisibile lo dice.
Si è così espresso di recente, allorché gli è stata consegnata la laurea Honoris Causa in Comunicazione e Cultura dei Media:
I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.
Giustissimo. Certo, lui poi va avanti e si lancia contro il complottismo, e per certi versi ha pure ragione, perché sono troppi gli sprovveduti e gli ingenui i quali, in buonissima fede, avendo avuto accesso a certe fonti non esattamente attendibili, ne diventano megafoni.
Ma a noi fa più impressione il massimalismo di coloro i quali ridono non solo di queste persone (ridere dell’altrui ingenuità non è comunque mai una bella cosa), ma di chiunque cerchi di fare controinformazione. Che dileggiano chi si fa delle domande. Che sfottono chi non accetta di farsi riempire il cervello dal liquame massmediatico.
Questi individui, forti di un ipse dixit squisitamente ufficiale, scolastico, televisivo, sono quelli che avrebbero arginato Pasolini. Sono quelli che avrebbero applaudito al Costanzo Castigatore dei suoi ospiti, sono i figli della “cultura” di Maurizio Costanzo e della televisione, che accettano la realtà che è stata loro presentata senza farsi troppe domande e vivono in una illusione di eterno presente convinti che il teatrino messo in scena davanti ai loro occhi sia la realtà. Come aveva detto l’intervistatrice dell’aneddoto di apertura: non devono elaborare. Per loro la realtà è qualcosa di dato. E la difendono.
Sono i “nativi televisivi”, cani da guardia dell’impero della mente sulle menti di cui abbiamo già parlato in altri articoli di questo blog.
La Televisione ha deciso per noi quale fosse la realtà e l’ha trasformata in spettacolo. Poi ha detronizzato tutti quegli intellettuali che erano ancora ben radicati nel reale, equiparando la loro competenza a quella di semplici uomini di spettacolo. Un’azione simile all’uccisione di Dio, realizzata senza alcun eroico titanismo, ma solo con la mediocrità imposta e la colpevolizzazione dello spirito prometeico. Gli spettatori, grazie a reality come il grande fratello si sono illusi di poter far parte di quello spettacolo come le loro star preferite e come gli intellettuali. L’avvento del web e dei social network ha fatto il resto, fornendo il surrogato ultrademocratico della televisione, che di fatto è il regno di questi subumani.
Un regno dove tutti possono essere autarchici despoti.
Per questa gente le note di Rossini che aprivano e chiudevano le trasmissioni Rai devono suonare come una sorta di inno nazionale dei loro piccoli regni virtuali.
A noi hanno sempre messo una grande inquietudine fin da bambini.
Forse in qualche modo percepivamo come tutto il caos in cui avremmo vissuto negli anni a venire nasceva da lì.
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Pier Paolo Pasolini era avanti anni luce. Il contenuto della sua intervista potrebbe essere la naturale introduzione o conclusione di questo articolo…
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Valutazioni condivisibili, brillanti, espresse con eleganza e semplicità. La prosa è aderente alla tensione culturale di un vissuto, che appare dolorosamente reinterpretato nella chiara percezione della realtà, colta nel divenire della cronaca e della storia che ne fluisce. Grazie !