Quanto è corto il tuo guinzaglio?

bal1Non puoi camminare per le strade della tua città senza incrociare almeno un paio di persone con un cane al guinzaglio ogni tre minuti. Se non ne vedi non è detto che non ti siano comunque passati dei cagnolini sotto il naso. E’ solo che la bestia è piccola (termine tecnico “toy”, giocattolo, e questo la dice nulla sull’approccio con cui la gente si relaziona a quelle povere bestioline selezionate per essere nane) e se ne sta nella borsetta della padrona, di solito un’oca vestita di griffe dalla testa ai piedi sulla scia di Paris Hilton.
E’ una cosa che alla lunga rompe il cazzo.
Come le polo col colletto rialzato. Le file di suv parcheggiati davanti a un centro commerciale. Le cronache genitoriali postate sui social network, con relative foto e filmati dei figli neonati. I trentenni che tirano fuori il tablet per leggere le ultime notizie al bar, alle otto di mattina, anche se sul bancone ci sono le copie cartacee degli stessi giornali. I regali di gruppo comprati nei sexy shop. L’espressione “abbiamo litigato su facebook”. La gente che passa il tempo ad armeggiare sullo smartphone.

Non c’è nulla di sbagliato nel rivolgere il proprio affetto nei confronti di una bestia. L’amore puro e diretto perché non mediato dall’ipocrisia del linguaggio (ma per nulla incondizionato come vorrebbero alcuni romantici interpreti di una natura sempre benevola in odor di New Age) è una delle vie che permettono di interfacciarci con gli strati più profondi ed alti del nostro essere, “essere” sia inteso in senso interiore, quello che possiamo chiamare con approssimazione “io” senza pretese di essere tecnicamente corretti, sia inteso in senso esteriore,ovvero ciò che sta oltre i confini della nostra falsa personalità. Del resto, chi crede, sa dai tempi di san Francesco che l’armonizzazione con la natura è una via per arrivare a Dio e non è necessaria, a chi non crede, una laurea in fisica nucleare  per intuire che prendersi cura di un essere vivente ha un effetto ristoratore sulla nostra psiche perché è bello farsi carico della cura e del benessere di una creatura. E ciò che è bello reca armonia.
Chiunque non sia completamente alienato sa, da ben prima che gli psicologi cominciassero a parlare di pet therapy, che la presenza di un animale in casa “fa bene”.
Ma è evidente, a meno di non avere un elettroencefalogramma completamente piatto, che lo scenario odierno è apocalittico ed ha una forte valenza simbolica.

Che il business dell’industria alimentare per  animali domestici (“pet”. Le parole italiane sono bandite dal linguaggio dell’economia per ragioni incomprensibili) sia uno dei pochi settori non solo insuscettibili di subire gli effetti della crisi economica in corso, ma addirittura in crescita, è un dato di fatto. Che ogni giorno milioni di persone spendano cifre esorbitanti per comprare cibo in scatola o accessori di discutibile utilità per i propri animali domestici è altrettanto evidente senza tirar fuori cifre e statistiche utili ai maghi neri dell’economia ma non a un umanista interessato all’osservazione della realtà da un punto di vista qualitativo.
Non ha nessun interesse neppure osservare con quanta dabbenaggine la gente si stia facendo gabbare da un viscido triangolo truffaldino costituito dalle ditte produttrici di cibo per animali, veterinari collusi, e venditori al dettaglio che agiscono in concerto con il più subdolo dei ricatti esistenti: quello fondato sugli affetti di persone spesso sole, desiderose di affetto, ingenue, e prive di conoscenze tecniche. Un tipo umano in costante aumento in questo crepuscolo dell’umanità. Un tipo umano su cui loro esercitano una crudele pressione.
Il perfetto bersaglio per questo tipo di marketing, una sorta di sequestro in cui il riscatto lo paghi a rate.

Che gli snack per pulire i denti dei cani siano una grande presa per il culo a fronte del fatto che un pezzo di corda dura anni e pulisce i denti più a fondo e meglio senza passare per l’apparato digerente (non ce lo ha detto un profano ma un addestratore vecchia maniera e non ci risulta che dai tempi in cui lui si è formato i denti dei cani siano mutati), è una di quelle verità di Pulcinella che è quasi imbarazzante mettersi a spiegare.
E parrebbe di offendere l’intelligenza del lettore se si ritenesse necessario affermare che, così come per noi uomini  è meglio non mangiare solo merendine, cibi surgelati, prodotti industriali o hamburger del Mc Donald’s, forse sarebbe preferibile evitare di dare pellet, croccantini e scatolette ai nostri piccoli amici. Raccontare che, in parallelo con l’industria del “pet”, è cresciuta anche l’incidenza di tumori e intolleranze alimentari negli animali domestici i quali, quando mangiavano i nostri avanzi o la carne che NOI preparavamo loro, stavano meglio e vivevano più a lungo.
Spiegare, con tutta la calma del mondo, che le razze dei cani sono una invenzione dell’uomo e non una ideazione di Dio, Madre Natura o qualsiasi altro nome si voglia dare alla vita in quanto tale. Spiegare con calma che lo scoiattolo deve saltare fra i rami delle querce come Cip e Ciop e non dibattersi  in una gabbia come un ergastolano.

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Raccontare che i croccantini per animali non esistono in natura, quindi se ne può fare benissimo a meno checchè ne dicano i veterinari ingenui e indottrinati o ruffiani e disonesti.

Sarebbe bello soffermarsi a parlare del fatto che, essendo una creatura onnivora, quindi anche ghiotta di carne oltre che di sementi, il criceto di casa, se anche solo pesasse una decina di chili, non esiterebbe un istante a spolpare fino all’osso il marmocchio a cui lo avete regalato come fosse un nuovo Pokemon. E così il furetto.
Ricordare ai possessori di volatili che sono dei carcerieri fra i più sadici che la storia abbia conosciuto produrrebbe un temporaneo squarcio nel velo di Maya.
E augurare ai proprietari di Boa o di altri serpenti stritolatori che questi escano dalla loro teca nottetempo e li inghiottano nel sonno insieme col  barboncino e relativo collare di strass non è una maledizione, ma una preghiera.

Sarebbe bello far crollare tutta l’impalcatura di balle che il golem del settore “pet” ha impiantato nelle nostre teste con la pubblicità, con strategie di marketing spregiudicate, rappresentanti con sorrisi da iene, allevatori sottomessi al dio denaro e veterinari privi di scrupoli, perché  su novantanove che si incazzano, uno ammetterà che forse questa invettiva non è una stronzata.

Ma non è questo l’intento dell’ articolo che, molto più umilmente, vuole focalizzare l’attenzione sulla figura del cane al guinzaglio e la sua valenza simbolica.
Nonostante tutto l’affetto e soprattutto il rispetto che si può nutrire nei confronti degli animali, c’è qualcosa di spaventosamente sinistro nella diffusione di massa del cane come animale da compagnia e in generale nell’addomesticamento generalizzato anche di bestie che, fino a pochi anni fa, nessuno si sarebbe mai sognato di rinchiudere come il suricate.

Ai fini di questa argomentazione torna utile soffermarsi in particolare sul contrasto cane/gatto.
E’ vero che il cane, tutto sommato, se la passa meglio di uno scoiattolo albino ingabbiato o di un pappagallo incatenato al trespolo.
Come pure si gode di gran lunga di più la vita un gatto, che entra ed esce di casa, di quanto non faccia un rettile rinchiuso di una teca di cristallo.
Il punto è che cane e gatto sono gli animali domestici più diffusi e i loro caratteri, così come le loro abitudini di vita in cattività, sono noti a tutti, tanto che la loro contrapposizione nell’immaginario comune ci aiuta a osservare cosa si muova nella testa dell’essere umano.
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“Il cane è meglio del gatto”. Di più:”il cane è più intelligente del gatto”
Lo sento da quando ero piccolo ‘sto discorso e non mi è amai andato giù.
Per la verità mi è sempre stato profondamente sul cazzo, soprattutto per il compiaciuto trionfalismo con cui alcuni cinofili ripetono questo ritornello. Da bambino mi dava fastidio per il semplice fatto che ho sempre adorato quei piccoli felini. Li trovavo bellissimi, buffi, misteriosi e a volte addirittura inquietanti. Erano la squadra per la quale tifavo, visto che di Maradona e Careca me ne fottevo.

Da adulto mi sono reso conto che un discorso così limitativo tradisce tutto ciò che nell’uomo moderno  odio.
Per prima cosa presuppone  esista solo un tipo di intelligenza,quella di tipo logico matematico, e i parametri secondo cui la si valuta  sono quantificati sulla base di regole statistiche un po’ come i test di intelligenza degli esseri umani. In altre parole l’uomo si inventa una scala al cui vertice decide di collocarsi (un po’ come quei tizi che si inventano un nuovo stile di arti marziali, ne fondano la federazione internazionale e se ne autoproclamano campioni e maestri supremi).
Sulla base di quella scala elabora un metro di misura della realtà.
L’uomo occidentale non riesce a concepire un modo di relazionarsi con la realtà diverso dal proprio ottuso sistema razionalistico e matematizzato. E chi non è come lui non è intelligente, anzi, è stupido.
Mi ricordo che all’apice del mio egocentrismo infantile, se qualcuno mi faceva del male o semplicemente si comportava in un un modo per me incomprensibile, in assenza di concetti articolati, dicevo che l’autore del suddetto comportamento era stupido.
Le bambine dicevano brutto.
Le menti elette che dai loro scranni accademici influenzano la cultura mondiale hanno un modo di ragionare che io ho abbandonato dopo l’asilo. Perché oggi bellezza e intelligenza sono codificati sulla base di stereotipizzazioni imposte dall’alto che il consorzio civile accetta come dogmi.
Se è vero che l’uomo è stato il culmine del creato, ciò non vale per l’uomo di oggi, che ha meno dignità è della planaria o dell’ameba, e di sicuro, quando tutte le cosmogonie tradizionali postulavano questa idea, non si appellavano alla quantificazione dell’intelligenza, quanto piuttosto a un insieme di razionalità, giustizia, empatia e pietà che rendeva il glabro bipede potenziale custode della natura.
Che anime candide gli uomini di allora!

Negli Stati Uniti i pellerossa totalizzano punteggi molto bassi nei test d’intelligenza. Non sono stupidi. Semplicemente il loro approccio al linguaggio, lo strumento con cui si interagisce con la realtà, è così diverso da quello anglo sassone che le loro strutture mentali ne sono influenzate  al punto che i processi logici di un indiano risultano profondamente differenti dai nostri.
Ma questo fenomeno, se anche viene studiato in certi ambiti, non lo si nomina. Sono meno intelligenti, si dice.
Come i gatti.

Poi c’è la questione dell’addestrabilità.
Ecco, io sinceramente ho i miei dubbi sul fatto che l’attitudine a frasi addestrare, a tenere dei comportamenti eteroindotti allo scopo di ricevere un premio sia un segno di intelligenza.
Francamente lo considero una prova di opportunistica sottomissione da parte dell’addestrato, e scorgo un sottile retrogusto di crudeltà nella parte attiva, quella del padrone. Un implicito ed ineliminabile senso di superiorità che resterà sempre lì a ricordare i ruoli nonostante l’affetto, nonostante tutto.
A un cinofilo questo discorso non piacerà, non se lo riconoscerà addosso. Ma è dai primi del novecento che la psicanalisi cerca di dirci che quanto si agita nel nostro inconscio è quasi sempre diametralmente opposto a quello che noi crediamo essere il nostro pensiero o un nostro comportamento. E per una volta  questo discorso, più volte tirato fuori da psicologi progressisti a sproposito per legittimare ogni nefandezza umana (di solito sessuale), torna utile perché si possa rispondere ai cinofili non rompetemi i coglioni, piuttosto chiedetevi se conoscete realmente voi stessi, se siete felici, e perché tenete il vostro ‘migliore amico’ al guinzaglio, lo fate dormire per terra, aprite per lui scatolette maleodoranti con carne di dubbia origine e lo sgridate quando, in preda all’entusiasmo e seguendo la propria natura, vi fa le feste in modo irruento sporcando i vostri preziosissimi vestiti firmati o il vostro divano da tremila euro. Chiedetevi perché snaturate il vostro ‘migliore amico’ ornandolo con oggetti da boutique, magari facendone acconciare il pelo come fosse la chioma di una modella, rendendolo di fatto un ricettacolo delle vostre frustrazioni. Ma non crediate che per questo io vi odi. Più vi osservo e più abbraccio la vostra debolezza che nasce dalla solitudine, dalla perdita di senso della realtà e dall’assenza di scopo che caratterizza la vita in Occidente.
Boutique

La verità è che i cani sanno quello che devono fare perché sanno ne riceveranno un premio in forma di cibo o carezze, o anche solo inarticolati e rincuoranti versi di approvazione da parte del loro migliore amico (perché il padrone, dal punto di vista del cane, è davvero il migliore amico, qualcosa di molto vicino al dio. Io non credo questo amore sia davvero simmetrico). Noi vogliamo che attraversino il loro fottuto campo di agility, loro lo fanno solo perché pensano al biscotto o alla carezza che riceveranno al termine del percorso. Certo, si divertono insieme al loro migliore amico. Ma è chiaro che, se amore è guardare dalla stessa parte, certamente c’è qualcosa di molto più contrattualistico dietro al rapporto tra cane e padrone. Lui vuole il biscottino, tu vuoi compiacerti della sua obbedienza e bellezza.
Mi ricorda alcuni compagni di classe lecchini a scuola o i più viscidi baciaculi negli ambienti di lavoro.
Perché la verità è che in quei momenti il cane non sta seguendo la propria natura come farebbe un setter a caccia o un pastore maremmano in montagna con un un gregge. Sta tenendo, al contrario,  un comportamento eteroindotto sostanzialmente inutile se non per il piacere immediato derivante dal premio. Il campo di agility non ricorda, forse, la versione più elaborata della ruota del criceto?
No, ripetono educatori cinofili, allevatori e altri operatori del settore, l’agility serve a sfogarli altrimenti vanno in depressione o, frustrati, distruggono la casa del padrone.
Giusto.
Infatti il punto è che il cane non dovrebbe stare in un appartamento. Dovrebbe potersi permettere un quadrupede solo chi sia in grado di garantirgli una bella vita senza bisogno di portarlo al campo di agility. Che senso ha mettere una creatura sotto stress e poi accollarsene la “cura”? Se Fido c’ha il giardino, non gli servono nè l’agility nè lo psicologo dei cani.
E che dire dei giochi di intelligenza? Mette i brividi sentire l’addestratore che dice serve a tenergli impegnata la mente, cioè serve a strapparlo da quella condizione privilegiata di pura identificazione nell’Azione che noi invidiamo alle bestie. Un percorso inverso a quello che cerca di fare l’uomo con meditazione, arti marziali e yoga.
Ci siamo fottuti noi, vogliamo fottere pure loro.
E’ in questa chiave che va valutato il presente sfogo che, a un occhio superficiale, potrebbe apparire come una apologia del gatto e una invettiva contro il cane. Niente di più errato. Non si sta denigrando l’enorme carica affettiva e la riconosciuta intelligenza di Fido, che invece è giusto e doveroso riconoscere e apprezzare, ma semplicemente sottolineando come il nostro costringerlo a comportamenti innaturali sia una forma di inconscia violenza che lui accetta di buon grado per amore. Amore intenso e incondizionato adattamento per devozione adorante.
Ma da parte nostra c’è davvero altrettanto amore?

Dare del  “cane” o del “cagnolino” a un uomo non è mai stato un complimento.
Ecco, io mi offenderei se il mio migliore amico usasse il mio nome come offesa.
E non sarei neppure molto contento se il mio migliore amico mi facesse estirpare le palle o facesse togliere le ovaie a mia sorella, solo per impedirci di seguire la nostra natura ed essere dei migliori peluche animati.
I gatti non è che non sappiano cosa vorremmo facessero.
Semplicemente, per loro non è importante cosa noi vogliamo. Devono volerlo loro. Se sei fortunato e la tua volontà converge con quella del tuo gatto, allora non ci saranno problemi. Se lui decide che quello che pretendi non gli interessa, il piccolo e letale predatore ti guarderà con pigrizia e rimarrà inerte, oppure persevererà nel comportamento che intendevi vietargli.
Paciosità

Da lì  inizierà una guerra quotidiana come quella tra Sandra e Raimondo.
La cartina di tornasole della presunta stupidità felina la dà il comportamento del gatto in presenza dei divieti.
Chiunque abbia avuto un gatto per casa può testimoniare che il bastardo sa esattamente  cosa non deve fare.
Semplicemente la sua intelligenza è tutta dedicata a farlo lo stesso senza farsi beccare.
Senza contare poi che ci sono quelli più scaltri e selvatici che non si curano nemmeno di farlo di nascosto: agiscono sotto il tuo naso, fissandoti con gli occhi sbarrati e le pupille dilatate come bottoni, per poi scappare consci della loro superiore agilità.
Si può discutere ore sulla opportunità di tenersi in casa una creatura che in un modo o nell’altro tira a fregarti, ma di certo non si può dire che comportamenti simili denotino stupidità.
Dovremmo semplicemente cospargerci il capo di cenere e smettere di crederci in grado di misurare il mondo usando  noi stessi come parametro e tacciando di stupidità chi non ci assomiglia.
E’ patetico.
Anche perché una forma di vita, per il fatto stesso di occupare un proprio posto nel creato, ha una sua intelligenza, altrimenti non riuscirebbe a stare al mondo. Dubito fortemente possa dirsi la stessa cosa di razze selezionate dall’uomo per scopi specifici.

Ma non credo la questione si limiti a questo.
Se fosse semplicemente così, non infastidirebbe più di tanto.
C’è qualcosa di più sottile in questo atteggiamento differenziato verso gatti e cani.
Un’ipocrisia impalpabile ed impercettibile che in sé reca una visione dei rapporti sociali e sta alla base dell’addomesticamento di tutte le bestie “da compagnia”.
L’uomo  “premia” il cane non per la sua intelligenza, non per la sua fedeltà, non per la sua abilità.
Lo premia per essere un animale sottomesso.
E’ rassicurante mettersi in testa che chi ci obbedisce è più intelligente.
E’ rassicurante dire che chi sfugge al nostro controllo è poco intelligente: lo metti fuori gioco prima che la partita cominci evitando qualsiasi confronto.
Quello che del gatto spaventa è il fatto di essere una creatura primitiva del tutto simile, per indole, ai suoi antenati.
La sua voce demoniaca, la notte, ci  inquieta perché ci riporta ad un mondo ancestrale in cui si muovevano forze enormemente superiori all’uomo, forze soverchianti che i primi uomini chiamarono “numi” o dei. Un tempo che, non potendolo ricordare con la nostra memoria associamo, come tutte le cose che non conosciamo, alle tenebre, al pericolo, a un’epoca che ci rassicura sapere di esserci lasciati alle spalle.
Il gatto è un messaggero dell’ombra di cui parla la psicologia Junghiana.
Così si espresse Howard Phillips Lovecraft nell’incipit del breve racconto “i gatti di Ulthar”, un racconto godibilissimo che consiglio caldamente anche perché reperibile persino online, postato da qualche fan sfegatato del Solitario di Providence:
Si dice che a Ulthar, oltre il fiume Skai, non si possono uccidere i gatti, e mentre guardo la bestiola accoccolata a far le fusa davanti al caminetto, non ho nessun motivo per dubitarne. Enigmatico, il gatto è affine a quelle strane cose che l’uomo non può vedere. È lo spirito dell’antico Egitto, depositario dei racconti a noi giunti dalle città dimenticate delle terre di Meroe e Ophir. E parente dei signori della giungla, erede dell’Africa oscura e feroce. La Sfinge è sua cugina, e lui parla la sua lingua; ma il gatto è più vecchio della Sfinge, e ricorda ciò che lei ha dimenticato

Canidi e felidi discendono da uno stesso predatore che milioni di anni fa viveva sugli alberi. Gli antenati del cane scesero molto prima, mentre quelli del gatto se ne restarono fra i rami degli alberi. Il felino restò nascosto a guardare con pena il cuginetto diventare cane e avvicinarsi all’uomo.
Così il cane si è umanizzato, dimenticando ciò che era.
Il gatto resta in contatto con la sua dimensione ancestrale, col  felino ancestrale. Non è un caso se, presso le più svariate tradizioni, la casta guerriera, obbligata dal proprio ruolo ad attingere alle radici dell’uomo primordiale sia in senso solare positivo che in senso bestiale e distruttivo, spesso sia associata a bestie maculate o tigrate di cui non di rado indossa  le pelli o porta l’effige riprodotta su armi e armature. Il Karambit e il Bagh Nakh, due armi orientali, l’una simile a una roncola con l’impugnatura invertita (tanto antica da essere citata anche nel Mahabharata), l’altra a un rampino, sono nate per emulare l’artiglio della tigre. Il muso di un cocker, come fregio su uno scudo, non sarebbe molto credibile. Ma forse può rappresentare meglio il soldato moderno.

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In un certo senso il gatto gode di tutte quelle libertà che noi abbiamo abiurato tanto tempo fa e abbiamo tolto pure al cane, nel quale ci specchiamo.
Forse sarebbe più legittimo dire che la preferenza di molti per il cane sia una questione di “controllo”.

Possiamo dire che un cane è intelligente perché è più facile controllarlo, siamo in grado di prevederne le azioni e quindi sottometterlo è facile.
Col gatto non si può.
L’uomo celebra la prevedibilità come virtù non perché la consideri realmente una virtù, ma solo perché gli permette di dormire sonni tranquilli.
L’uomo non vuole scossoni perché il sistema ha delle regole ferree che, se rispettate da tutti, danno una illusione di sicurezza.
La nascita della cibernetica, da cui sono discese tutte le forme di controllo moderno, dalle gestioni degli organigrammi aziendali alla scienza delle comunicazione passando per l’invasivo inserimento della tecnologia di rete nella vita di tutti, sogno finalmente realizzato di tutte le polizie politiche della storia, risponde a questa esigenza di automatismo prevedibile.
La prevedibilità è funzionale al sistema.
Quando qualcuno infrange la norma, la dinamica è sempre la stessa.
Un intellettuale “scomodo” passa il segno della sensibilità “ufficiale” e viene screditato (antisemita, pedofilo, comunista, fascista, o tutto insieme). Un ragazzo che preferisce i tramonti ai videogiochi passa un’adolescenza d’inferno perché i coetanei lo descrivono come “strano”, se non “frocio” (ah, scusate, non si può più dire!). Un dipendente che non si conforma a certi codici aziendali viene messo all’angolo fino a che non si autoelimina.
Nell’uomo conformismo e sottomissione sono i presupposti per quell’omologazione, che lo rende prevedibile, controllabile e sanzionabile.
Non è un caso che gli esperimenti di Pavlov abbiano avuto come soggetti di sperimentazione proprio i cani, tanto da rendere proverbiale l’espressione “cani di Pavlov”.
Oggi siamo tutti cani di Pavlov: pronti a rispondere positivamente a uno stimolo in previsione di una retribuzione appagante: dal voto a scuola alla lode sul lavoro. Dal denaro al sorriso di una donna. Dalla pacca sulla spalla al famigerato pollice alzato su facebook. E su questo tipo di gratificazioni si fondano le formule espressive codificate per la comunicazione da superiore a inferiore nelle gerarchie: la penso come te, hai fatto benissimo, anche io sono come te, che danno al sottoposto la sensazione (di solito illusoria) di essere apprezzato (“ma che fortuna Capofortuna guarda stasera con noi la TV […] sembra immortale ma è come noi” cantava Rino Gaetano molti anni prima che Eco tenesse il discorso di apertura alla prima lezione della facoltà di Scienze della Comunicazione).

Così spiega Ross Ashby, psichiatra britannico pioniere dello studio dei sistemi complessi in cibernetica:
tipico della cibernetica è trattare una data particolare macchina, chiedenodosi non quale singolo atto produrrà,ma quali siano i comportamenti che può produrre. Essa studia tutte le forme di comportamento in quanto regolari, determinate e riproducibili.”

“se si potesse creare un modello di sistema fisiologico, mediante il quale l’informazione proveniente dall’ambiente potesse essere ricevuta, elaborata e poi retro-alimentata per cambiare detto ambiente, forse sarebbe possibile modellare la mente umana stessa, soprattutto se si usassero le macchine informatiche.”
(
J. Steinberg, From Cybernetics to Littleton:Techniques og Mind Control”)

John von Neumann: “il sistema nervoso umano è soltanto un automa efficientemente organizzato e molto naturale soggetto a una modellazione matematica deterministica e lineare”.
Lo studio sistematico della cibernetica è cominciato nell’immediato secondo dopoguerra e si è spostato progressivamente nella direzione del controllo sociale attraverso l’induzione di comportamenti prevedibili come quello delle macchine o dei cani addestrati.
Avete presente le facce senza lineamenti e gli studenti fatti piovere nel tritacarne in “The wall”?
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Simbolicamente, il fatto che oggi ci siano tante bestie al guinzaglio è una rappresentazione allegorica di quanto le nostre vite siano costrette. Ci specchiamo nel nostro cane, ci compiaciamo dei suoi comportamenti indotti dal soft power del biscottino o della carezza, ci convinciamo, inconsciamente, che anche noi siamo un po’ così. Solo su una scala più complessa. Ma noi siamo molto di più. O forse no. Forse davvero c’è una reale differenziazione antropologica fra gli uomini- cane e gli uomini-gatto. O forse sarebbe meglio dire fra gli uomini cane e gli uomini lupo. Una differenziazione fondata su una qualità spirituale non da tutti posseduta né da tutti percepita.

Sia come sia, c’è una cosa che accomuna il punkabbestia accompagnato dal pitbull e la trentenne vestita chanel col chihuahua nella borsetta, ed è la sicurezza di avere un compagno di ventura che non si ribellerà mai e puoi ricattare facilmente con la promessa di un bonbon. Che puoi rimproverare, sfogando la tua aggressività, quando passa il segno, un segno che hai messo tu, non la natura.
Il desiderio che qualcuno ti adori con devozione e trasporto, penda dalle tue labbra, ti faccia sentire adorato  come un idolo pagano.
E non sfugga mai al tuo controllo.
In questo piccolo dipolo è rappresentata in forma paradigmatica e liofilizzata la nostra società.
Perché il Potere, quel potere distorto e perverso che ha nello sfruttamento, nell’egoismo, nella paranoia e nel controllo il proprio paradigma, è radicato in ciascuno di noi, perfettamente rinsaldato al nostro ego con il quale ha un rapporto di reciproco nutrimento e scambio energetico.

Il cane gonfia l’ego.
Il gatto lo mette alla prova.
E se c’è una cosa che l’ego di un occidentale non vuole, è proprio essere messo alla prova.
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Per questo, pur amando i cani, non riesco a provare per essi il trasporto emotivo e la simpatia che provo per i gatti.
Vedo nei cani tutto ciò che in me non voglio stimolare.
Come potenzialità di sottomissione o come desiderio di dominio.
Quelli che al contrario odiano i gatti, forse, li odiano perché quelle creature ricordano loro ciò che vorrebbero essere.
E quanto la loro vita sia fottuta.
Il metamessaggio di ogni trovata pubblicitaria proveniente dal mercato del pet, con tutti i suoi giocattoli e guinzagli, vuole convinerci che vivere in un mondo controllato, pieno di regole e catene, di sbarre e calmanti(esistono pure per cani e gatti), punte arrotondate, palle rimosse, giochi innocui e comportamenti maniacalmente ripetitivi, un mondo insomma fottuto oltre limiti accettabili, sia una cosa bella ed auspicabile.
Quando vedi un cane al guinzaglio, ti prego, sputa per terra.
O metti mano al karambit e liberalo.

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