Touch darkness and darkness touches you back, “tocca l’oscurità, e l’oscurità ti tocca a sua volta”. Questo è il sottotitolo che campeggia sulla copertina dell’edizione home video della prima stagione (un tempo avremmo detto “prima serie”) di True Detective, telefilm prodotto dalla HBO cui va riconosciuto l’indiscutibile merito di aver fatto appassionare persone, come chi scrive, poco inclini alla fruizione di quelle nuove droghe chiamate “serie TV”.
Il concetto della “contaminazione” viene ribadito anche nell’url del sito dedicato alla serie: http://darknessbecomesyou.com/ .
E’ un messaggio in cui si scorge l’eco del (troppo) citato aforisma di Nietzsche preso, se non erro, da al di là del bene e del male “chiunque combatta i mostri deve stare attento a non diventare un mostro a propria volta. E se guardi troppo a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro te”.
Se al lettore non è bastata questa considerazione a destare curiosità riguardo all’opera di Pizzolato e Fukunaga (rispettivamente soggettista/sceneggiatore e regista), speriamo le righe che seguono possano fungere da incentivo a non ignorare questo bel telefilm, anzi film di otto ore.
Il titolo può trarre in inganno, evocando l’idea di un poliziesco vecchia maniera, con quel “true” (vocabolo inglese per “vero”), che potrebbe richiamare un certo tipo di retorica viriloide tipica di molti spettacoli che vanno per la maggiore negli Stati Uniti. “Machismo senza limitismo” diceva un tempo Francesco Salvi.
Niente di più lontano dalla realtà.
True Detective è un noir ai confini con l’horror, genere da cui attinge per alcuni aspetti: dalla colonna sonora, che spesso aggredisce lo spettatore generando uno stato di tensione ed inquietudine, ad alcune atmosfere sinistre in cui la rappresentazione degli spazi e delle ambientazioni (resto sul vago per non anticipare nulla a chi non lo ha ancora visto), è un riflesso dell’equilibrio, o viceversa del mancato equilibrio, dei personaggi. Senza contare che, sia pur discretamente, si intravede una visione metafisica d’insieme.
Sotto la friabilissima crosta di un noir con personaggi intimisti e conflittuali si nasconde una storia che mette in scena la lotta più antica del mondo: quella tra il bene e il male (o per meglio dire “tra la luce e le tenebre”, come dirà Rustin Cohle, uno dei due protagonisti, in una scena particolarmente intensa) e che non disdegna di snocciolare divagazioni filosofiche sui più svariati argomenti: dalla religione al destino, dal ruolo dell’uomo nel disegno della creazione, al significato e la responsabilità di essere padre.
Non è facile liquidare in quattro e quattr’otto una storia del genere, e il recente provocatorio commento di Quentin Tarantino, “una noia mortale” rivela una grande superficialità. Del resto Tarantino è un autore che ormai vive del proprio mito e si autocita dedicandosi a puri e semplici esercizi di stile. La superficialità (o profondità della superficie, perché qui non si nega la qualità delle sue rappresentazioni) è in lui cifra stilistica che non ci sentiamo di criticare fino in fondo.
Ci si può annoiare ascoltando i dialoghi fra Rust e Marty, i due protagonisti, solo se si ha l’ elettroencefalogramma piatto ed una pietra al posto del cuore così come è impossibile restare indifferenti all’orrore che poco per volta, dalle indagini, emerge e viene vomitato addosso agli spettatori in un crescendo che disorienta e lascia attoniti.
L’identificazione viene accentuata da un indovinatissimo dettaglio che fa entrare in empatia coi personaggi: il fatto che tutto l’arco narrativo copra un periodo che va dal ’95 al 2012.
Periodo nel corso del quale tecnologia ed abitudini occidentali sono cambiati. Dalle cabine telefoniche agli MMS fino all’uso generalizzato del web. Se si pensa a quale sia il target anagrafico principale delle moderne serie televisive, le ragioni che hanno spinto a questa scelta risultano chiare.
Chiunque abbia oggi un’età compresa fra i venticinque e i quarant’anni (e, ovviamente, anche chi è più anziano) non potrà non avvertire uno strano retrogusto, non tanto nostalgico, quanto “testimoniale” man mano che la storia evolve sotto i suoi occhi.
Volendo lanciarsi in una interpretazione non troppo ardita, potremmo vedere i personaggi principali di questo capolavoro come ultimi rappresentanti di un tipo umano destinato a scomparire, stritolato dalla macina della Storia. Un uomo che ancora ricorda i tempi in cui la TV era in bianco e nero e nei bar c’era la radio. Vengono in mente le parole di Pasolini “guardo i primi atti della dopostoria cui assisto per privilegio d’anagrafe dall’orlo estremo di qualche età sepolta”.
L’elemento temporale è determinante nello svolgimento dei fatti, perchè buona parte della storia ci viene raccontata per flashback ai giorni nostri, quando Rustin Chole e Marty Hart, i due poliziotti protagonisti interpretati rispettivamente (e in modo superlativo nella loro capacità di esprimere i cambiamenti avvenuti nelle loro vite) da Matthew Mc Connaughey e Woody Harrelson, vengono chiamati a parlare di un caso di delitto rituale che apparentemente avevano risolto nel ’95.
Veniamo così a conoscenza dei fatti del novantacinque, che portano i due protagonisti in giro per i territori della Louisiana confrontandosi con un mondo che, sterminato ed amplissimo come il Texas descritto da Mc Carthy e Lansdale, può essere teatro di qualsiasi tipo di atrocità sfuggendo ad un controllo capillare da parte del consorzio civile e delle forze dell’ordine. Paludi, boschi, baraccopoli sperdute fra gli alberi, fattorie inabissate nel verde, e piccoli paesi in cui bikers, prostitute, devoti della santeria, poliziotti corrotti e semplici balordi sono tutti tasselli di un puzzle che poco per volta disegna un raccapricciante quadro d’insieme.
Ed è proprio in questi scenari e in questi ritratti che True Detective trova i suoi maggiori punti di forza.
Tra atmosfere sinistre e personaggi “corrotti e dolenti”, la presenza di un male immanente che sta dietro le quinte e influenza le vite di molte persone, lo scenario palustre di questo telefilm ricorda quello montuoso di Twin Peaks, ma senza l’onirismo sinistro per post-adolescenti, a tratti ironico di David Lynch. Qui ha cittadinanza solo un realismo crudo e drammatico in cui non c’è spazio per divagazioni “artistiche”.
Dovendo trovare proprio un termine di paragone, si potrebbe pensare al film “Angel Heart” di Alan Parker, solo che qui il diavolo se ne sta ben nascosto (nell’uomo). Vengono in mente altri due titoli: quello di “Seven” (diretto da Fincher) o il telefilm gemello di “X Files”: “Millennium”. Tutte opere in cui tra l’uomo e il male c’è una osmosi continua, in un gioco di riflessi e contaminazioni ineludibile.
Fra Twin Peaks e True Detective-stagione uno intercorre un arco di tempo di poco superiore a quello che interessa la storia di cui qui si sta parlando. C’è tutta la disillusione accumulata in oltre vent’anni di tracollo dell’Occidente, la tensione di un’umanità che si è giocata l’anima ma in qualche modo ne ha ancora memoria, il tutto senza l’ambiguità che ai tempi rese interessante l’opera di Lynch.
True Detective si presenta come l’urlo di dolore di un mondo ormai alla frutta. Anzi, l’urlo di dolore dei suoi sottoprodotti, dei suoi scarti, di tutte quelle figure umane, quei “vuoti a perdere” che il golem del capitalismo occidentale ha sedotto e abbandonato, corrotto, consumato, usato, ucciso, reso mostruose. Ne incontri tantissime nel corso della serie. Tanti ritratti che restano impressi.
Con le sue tematiche oscure e dolorose, implicitamente incazzate True Detective è ciò che in musica il metal sogna di essere da quando è nato, ma dal punto di vista sonoro ha un’anima smaccatamente country, e infatti è il cantautorato americano a commentare la bella sigla di apertura di ogni episodio (link).
Non c’è spazio per decadentismi neogotici estetizzati e riconducibili a stereotipi e mode, né compiacimento nella rappresentazione del male. Viene mostrata “la cosa in sé” (la morte, il vizio, il dolore, l’orrore o semplicemente l’abbandono) lasciando lo spettatore attonito con gli stessi dubbi e paure dei protagonisti.
Queste circa otto ore di spettacolo sono una delle più riuscite testimonianze di ciò che si agita oggi nelle nostre anime in pena. Se c’è uno spettacolo televisivo recente che merita di essere guardato, è proprio questo.
Chi ha già visto il telefilm di cui si parla può proseguire a leggere le considerazioni che seguono.
Per gli altri sarebbe opportuno tornare su queste righe dopo aver visto di cosa qui si sta parlando. In altre parole: seguono i temutissimi spoiler, un tempo noti come “anticipazioni”.
Abbiamo detto che i due protagonisti sono eroi in cui riconosciamo un tipo d’uomo che sta tramontando, come i personaggi di “c’era una volta il west” lo erano rispetto all’uomo della Frontiera. Questo perché entrambi agiscono e si comportano come quelli che un tempo avremmo definito “veri uomini”, quantunque in modi molto differenti e alla luce dei valori con cui siamo cresciuti.
Marty e Rust sono agli antipodi. Marty è superficiale, irruento, vittima delle passioni. Duro. Apparentemente un buon padre. Da sbirro di provincia occupatosi solo di casi “di provincia”, non ha mai sparato a nessuno. E’ il perfetto americano vissuto all’ombra della torta di mele, e del mito del cow boy, della forza, delle istituzioni. Ha una famiglia perfetta, una moglie bellissima e adorabile, due figlie graziose che lo svegliano la mattina e dei suoceri altolocati. Vive in una bella casa, è fiero dei suoi trascorsi da grande scopatore e, nel corso della storia, scopriamo che non se li è lasciati alle spalle visto che ha un’amante giunonica che sembra il riflesso di tutto ciò che piace a uno zotico americano: bella, obbligatoriamente tettona, maiala, e professionalmente affermata.
Rust è l’esatto opposto anche fisicamente.
Asciutto come un filo di ferro, reduce da un divorzio conseguente alla morte della figlia di pochi anni, del tutto disilluso riguardo alle istituzioni che lo hanno sfruttato. Ha lavorato come infiltrato per la squadra narcotici ricavandone tossicodipendenza e parziali danni neurologici che forse gli permettono di vedere “qualcosa di più” (quasi un augure, come si può vedere nella figura di fianco). E’ l’esatto contrario di una persona superficiale: ha una sua propria idea su qualunque argomento, pontifica su tutto e le sue tesi sono sempre nichiliste, sia pur fondatissime. Contro la religione, contro la presunzione dell’uomo di essere padrone del creato, contro la vita stessa. Non dorme quasi mai (si procura sedativi illegali per farlo) e, quando lo fa, si distende su un materasso buttato a terra in una casa che non ha arredato, circondato da libri di criminologia e di profiling. Un crocifisso troneggia nella sua “camera da letto”, ma non come simbolo religioso, bensì come rappresentazione della condizione umana “ogni uomo deve accettare il proprio Getsemani”, dirà a un attonito Marty in una delle prime confidenze che gli concederà.
Entrambi, con pregi e difetti, hanno personalità molto forti, per molti versi antitetiche e difficilmente conciliabili.
Eppure, in qualche modo, questo duo funziona.
Liquidare il binomio Marty-Rust come la classica coppia di poliziotti americani “diversi ma amici” a cui ci ha abituati certa cinematografia statunitense tipo “Arma letale” sarebbe un grosso errore, non dissimile da quello che Quentin Tarantino ha commesso nel giudicare questo telefilm. Perché, come si è detto poco sopra, siamo davanti a un horror mascherato da noir. Ma forse sarebbe meglio dire che siamo davanti ad un trattato che con il linguaggio della narrativa di genere ci aiuta a riflettere su chi siamo e sul mondo che ci siamo costruiti. (is this the world we created? cantavano i Queen)
Rust e Marty non sono due uomini diversi che si trovano e si accettano riconoscendo un po’ di se stesso l’uno nell’altro. E’ più corretto dire che sono due forze, due opposti che non conoscono una rassicurante sintesi perché ciò che rende vitale la loro unione è casomai la tensione, la “differenza di potenziale” che genera corrente, per usare un concetto della fisica. Ci troviamo davanti a due personaggi complementari: corpo e psiche.
A un’occhiata superficiale i loro battibecchi potrebbero indurre lo spettatore a parteggiare per l’uno o per l’altro. Ma la realtà è che, come nelle migliri opere d’arte, è più giusto riconoscere nell’uno o nell’altro frammenti della nostra stessa personalità. Ed infatti in certi confronti fra loro sembra di vedere due aree della coscienza che entrano in conflitto, come quando abbiamo un dubbio. Hanno bisogno l’uno dell’altro. Anche quando non si capiscono. E il loro perdersi e ritrovarsi nel corso della serie sembra un’allegoria che ci racconta di un essere alla ricerca della propria unità.
Interessante che il loro “divorzio” avvenga nel 2003, nel periodo cioè in cui l’entropia informativa generata dal web, dal terrorismo sia mediatico che reale, la globalizzazione delle genti e delle merci hanno scisso ulteriormente la già frammentata anima dell’uomo moderno. Sembra una rappresentazione analogica del caos in cui volenti o nolenti, siamo tutti piombati.
E non è nemmeno casuale il fatto che il loro karma vada a puttane quando, a metà della serie, i due mettono una toppa sull’omicidio a sangue freddo perpetrato da Marty, interrompendo l’indagine apparentemente risolta: le vite di entrambi diventano una lenta e penosa marea, una bonaccia di giorni tutti uguali e privi di scopo, come se fosse stato il destino a chieder loro di risolvere il caso e loro gli avessero girato le spalle.
Tirare fuori Dharma e Karma quando si parla di intrattenimento, per giunta in riferimento a un poliziesco americano può sembrare fuori luogo per chi crede esista una netta demarcazione fra intrattenimento e arte, ma visto che riteniamo il cartone animato “Ken il Guerriero” una educativa opera di Arte Sacra, e non disdegnamo di riportare una canzone di J Ax o una frase di Cristina d’Avena dopo una citazione Junghiana ce ne sbattiamo altamente le palle e andiamo avanti per la nostra strada.
Per comprendere dove si voglia arrivare è necessario prendere in considerazione tre cose: il mito della città di Carcosa, finzione letteraria citata da svariati scrittori del fantastico fra cui Ambrose Bierce, il simbolo utilizzato dalla setta responsabile dei delitti su cui i protagonisti della storia indagano, ovvero una spirale, e le dichiarazioni di Reginal Ledoux, il produttore di droghe freddato da un passionale Marty Hart a metà della storia quando sembra che il caso sia risolto.
“Sei a Carcosa ora, il tempo è un cerchio piatto”, dice il tatuatissimo produttore di allucinogeni.
Il dharma ha portato i due protagonisti della storia davanti a qualcosa che devono risolvere.
Finché i nodi non saranno sciolti, le loro vite si agiteranno in una spirale che soffocherà entrambi.
E infatti Marty Troverà una nuova amante, verrà beccato dalla moglie che già una volta lo aveva perdonato e divorzierà, si scontrerà con Rust per questioni personali e quest’ultimo darà le dimissioni dalla polizia.
Tutto a monte.
I racconti di Bierce e Chambers incentrati sul mito di Carcosa e del Re Giallo associano a questa città immaginaria una idea di “prigionia fuori dal tempo”. Un circolo vizioso dell’essere, un sogno da cui non ci si riesce a svegliare come quello del racconto “Polaris” di Howard Phillips Lovecraft. Ed è questo che Ledoux dice a a Rustin Cohle prima di morire. “Sei a Carcosa anche tu, adesso. Quello che è accaduto accadrà ancora”. Morale: “siamo tutti prigionieri di questa maledizione”.
“Carcosa”, quindi, come bonaccia nella traversata della vita. Impaludamento indotto dalla contaminazione con quel male che ha toccato i protagonisti della storia. La spirale che strangola le loro vite.
Ma non solo le loro, perché tutti coloro che sono più o meno direttamente entrati in contatto con la misteriosa setta (misteriosa a tutti gli effetti visto che anche alla fine dei giochi non ne sapremo molto di più), in un modo o nell’altro sono caduti in una spirale, contaminati da quell’oscurità di cui alla citazione d’apertura di questo articolo. Un ragazzo, ripetutamente molestato in tenera età dagli adepti, è diventato un travestito-prostituto. Un seminarista, testimone di qualcosa di poco chiaro accaduto all’interno dell’istituto presso cui studiava, istituto coinvolto nel giallo intorno a cui gira la serie, viene cacciato dalla scuola religiosa e diventa un alcolizzato predicatore/imbonitore di quelli che girano l’america come venditori di medicinali portentosi. Un’altra testimone, un’anziana donna di colore, è delirante e catatonica e così è anche ridotta la bambina sopravvissuta che a metà serie i due protagonisti trovano nella baracca di Ledoux.
Il noir come genere ci ha abituati, fin dai tempi di Chandler e Simenon, alle prospettive intimiste e alle riflessioni su bene e male, per cui forse chi ha dimestichezza col genere non griderà al miracolo.
Ma in questa sede si vuole sottolineare un aspetto non secondario della questione: i due eroi della storia non sono personaggi “maledetti”. Non sono ex criminali che si redimono, non sono dei viziosi che combattono un mondo più vizioso di loro.
Sono degli esseri umani che, pur con le loro debolezze (di cui comunque sono consci) mantengono per tutta la storia una idea precisa non solo di quale sia il loro obiettivo, ma anche della distinzione fra bene e male. E il loro obiettivo è fare chiarezza su un male che è cento volte più grande dei loro peccati (“noi siamo uomini cattivi, Marty. Teniamo lontani gli altri uomini cattivi”). Vivono nel peccato, ma lo sanno. E non se ne compiacciono.
Sono degli “umili servi del signore”. Fanno quello che va fatto.
Il concetto sarebbe di per sé banale se non si tenesse conto del mercato in cui è stato lanciato True Detective.
Da qualche anno, ormai circa un decennio, forse qualcosa di più, le serie televisive hanno raggiunto un livello qualitativo paragonabile a quello delle più prestigiose opere cinematografiche. Dal punto di vista qualitativo, probabilmente, la media delle serie ha superato quella dei film su grande schermo.
Oggi, se si vuole godere di una bella sceneggiatura con tematiche importanti, è molto più facile venire soddisfatti dal palinsesto di qualche canale satellitare piuttosto che dalla programmazione del cinema sotto casa.
Ormai l’attenzione di chi vuole farsi raccontare una bella storia si rivolge al satellite o ai programmi di file sharing.
E’ palese che, al netto delle ovvie eccezioni, al momento il tipo di spettacolo che più di tutti può “fare costume” è la serie TV. La ripetizione, il tormentone, indottrinano.
Niente di anormale finché non salta all’occhio un dettaglio: sono innumerevoli le serie televisive che preferiscono puntare sulla trasgressiva rappresentazione della violenza, del sesso, o dell’uso di droghe sospendendo il giudizio da parte della voce narrante. E’ inutile citare i titoli per far poi inalberare i fan di questo o di quel telefilm che diranno “eh ma non è proprio così perché nella puntata x il personaggio y fa capire che…”.
Rassegnatevi. E’ proprio così.
Gli eroi positivi non vanno di moda. Chiederci come mai, in questo articolo, non ha molto senso. Sorprende osservare come tette e sangue compaiano qua e là nella maggioranza degli show televisivi, ma non è tanto questo a lasciare perplessi, che onestamente non ci dispiace (soprattutto per le tette).
A dispiacere è casomai il fatto che con questa sarabanda di culi e di cadaveri, viene spesso promossa una condotta cinica e spietata, utilitaristica e non di rado crudele fondata su un’ambiguità morale che, pur non bandendoli, presenta come valori obsoleti il rispetto per il prossimo e la pietà.
Del resto è dalla fine degli anni novanta, dai tempi dei primi Tarantino, Araki, Clark, che la critica pop abusa della parola “buonismo” screditando e denigrando spesso anche ciò che è semplicemente “buono”. Chi ha vissuto la propria adolescenza negli anni novanta è stato indottrinato a rifuggire le cose semplici e favolistiche, ed è a questo tipo umano dal palato addestrato, conformista e militante, contorto e cervellotico come la parodia di un intellettuale e armato solo di strumenti dialettici da talk show, che certi spettacoli si rivolgono. Se è vero che dietro lo sprezzo per il buonismo può nascondersi il desiderio di una più alta forma di “bontà”, è altrettanto vero che sono troppi i superficiali che di questa parola abusano con estrema facilità etichettando come “luogo comune” i buoni sentimenti(!!!).
E’ inutile raccontarsela per salvare opere che magari ci sono piaciute (nessuno vuole qui, ad esempio, negare la qualità di “Romanzo Criminale”). Di fatto la “vibrazione” che ci stanno trasmettendo è quella di un egoismo autistico e violento, e la mitologia che ci stanno offrendo attinge i precetti della sua morale ai calcoli su costi e benefici tipici del capitalismo. Valori occidentali. Senza fare gli allarmisti osiamo dire che le serie Tv sono le ultime “teste di ponte” ideate dall’Occidente per invadere la psiche di mezzo mondo. Un esempio di soft power.
Non serve parlare solo di spettacoli violenti, è sufficiente pensare all’effetto “Sex And The City”. Quell’insulso telefilm incentrato su tematiche frivole cui nessuno scrittore né cineasta avrebbe mai dedicato una propria opera, ha avuto un effetto dirompente in tutti i paesi che l’hanno trasmesso, creando un generalizzato effetto moda: dalle ventenni che si comportano e parlano come trentenni annoiate terrorizzate dall’incubo restare zitelle (pardon, single) a vita, alle trentenni che assumono atteggiamenti frivoli e adolescenziali, o condotte sessuali “disilluse”. Si rassegni chi si ostina a difenderlo con le unghie e con i denti: Sex and the City ha lo spessore culturale di un fotoromanzo e un quadro valoriale di riferimento che altro non è se non l’espressione del vuoto cosmico in cui oggi la borghesia occidentale vomita i suoi ultimi rantoli.
Queste considerazioni non vogliono essere in alcun modo moralistiche, quanto piuttosto “autarchiche”, dove con la parola rivendichiamo la sacralità della psiche e la necessità di difenderla da “invasioni” esterne. Se è vero che è inevitabile essere influenzati da ciò che vediamo (ed è per questo che è meglio scegliere bene di cosa nutrire la propria anima), è irritante osservare come a volte certe influenze siano studiate scientificamente per promuovere stili di vita. Da “Sons Of Anarchy” a “Californication” passando per “Sex and The City” o per il fantasy “Trono di Spade” (anche se tutti preferiscono chiamarlo Game of Thrones), è tutto un vivere made in USA. Tutta una difesa del pensiero neoliberale, in varie declinazioni, per raggiungere tutte le culture, tutte le fasce di età, ed entrambi i sessi.
Accanto a questa considerazione ne va poi fatta un’altra, complementare: quella sul nuovo Horror.
Se la saga di Scream è stata un ironico epitaffio (meta)cinematografico di quel modo di concepire l’horror come favola moderna in cui i mostri si combattono e si sconfiggono (si pensi che il titolo della sua parodia, “Scary Movie”, letteralmente “film di paura” era in realtà il titolo a cui inizialmente aveva pensato Wes Craven per Scream, quasi fosse un film sui film di paura, e chi lo ha visto sa perchè), non possiamo dire che la new wave dell’horror contemporaneo sorga dalle sue ceneri.
Al contrario ne è, per molti versi, l’opposto.
Film come “Hostel”, “Borderland”, “Martyrs”, il trittico dei vari “August Underground” o l’incredibile “Human Centipede” (al cui eloquente trailer rimandiamo con questo link) possono introdurre il lettore a un genere chiamato “torture porn”. Con la definizione si intende un tipo di spettacolo in cui dei personaggi vengono torturati e uccisi senza che quasi nulla venga risparmiato all’occhio dello spettatore. In pratica sono dei finti snuff. Ma anche se non si tratta di snuff in senso stretto perché non c’è una vittima reale, questo non significa che ciò non “sporchi” la mente dello spettatore.
Anche gli horror “sovrannaturali” non possono vantare una grande salubrità. Da The Ring in poi è uso comune, per provocare disagio nello spettatore, inserire fotogrammi fugaci, quasi subliminali, magari accompagnati da suoni disturbanti, come un’interferenza radio . Quasi un’interferenza psichica (espediente abusato nella prima stagione di American Horror Story). Dal punto di vista della narrazione è un trucco furbo ma ben poco creativo: probabilmente è più originale un bambino che si nasconde dietro un angolo e fa “Bu!” (in realtà io quando posso lo faccio ancora). Se è vero che a vedere i film horror ci va chi vuole farsi spaventare, è altrettanto vero che chi lo fa non sempre è consapevole di ciò a cui sottopone la propria psiche, specie davanti a questo genere di espedienti a un passo dal’ipnosi.
E non sono pochi in letteratura psichiatrica i casi di persone che hanno sviluppato ossessioni per colpa di alcuni film. Citando “a braccio” i film che al momento mi sovvengono, saltano fuori “i dieci comandamenti”, “l’esorcista 3” o “El Topo”. Pellicole che, in qualche modo, sono riuscite a “rompere la cornice” e invadere alcune menti.
Al di là delle considerazioni tecniche o le distinzioni sui generi (sovrannaturali, slasher, torture porn o horror “religiosi”), possiamo tirare le reti e, senza pretese di precisione assoluta o esaustività (qui siamo appoggiati al bancone del bar a parlare col lettore sorseggiando una Weizen, non stiamo tenendo una conferenza) distillare alcuni elementi.
-Nelle scene violente, un marcato realismo e un crudele accanimento nella rappresentazione non tanto del sangue, quanto del dolore e dell’orrore. Crudeltà della macchina da presa. Un Dario Argento lasciato a metà film.
-Nella visione del mondo, un immanentismo del Male. Un Male che non si riesce mai a sconfiggere. La percentuale di film “senza lieto fine” è a tal proposito sorprendente (si fermi chi vuole obiettare dicendo che i vari “Nightmare” o “Venerdì 13” avevano sempre un finale che presupponeva la non sconfitta del cattivone di turno: quello è marketing, e la scena “aperta” non ha mai dato negli spettatori, tranne forse nel caso del primo Nightmare, un senso di oppressione giacché la catarsi era già avvenuta. Anzi, in certi casi strappava un sorriso, quando non una risata liberatoria).
-Nei personaggi, cosa che un tempo non accadeva, si evidenzia l’umanità, la fragilità. Con alcuni si può persino entrare in empatia, che è un po’ il contrario di ciò che accadeva nei vari venerdì 13 o Halloween, dove le vittime erano sempre degli emeriti cazzoni da dileggiare, mentre chi si salvava era una persona più o meno completa.
-Gli assassini non sono più “senza volto”, ma sono spesso carismatici. A volte persino simpatici. E non tutte le cose che dicono sono stronzate. Esempio: Otis e Capitan Spaulding in “la casa dei mille corpi”.
Non si vuole in questa sede bocciare film sulla base di pregiudizi morali, anche perché in questo marasma sono nate pure opere pregevoli (ma sicuramente non fruibili da tutti, non solo in riferimento all’età), ma si vuole sottolineare come certi spettacoli, messi davanti a occhi particolarmente impressionabili, possano “sporcare la mente”.
Del resto un film che si concentra solo sull’esplicita rappresentazione del dolore, della carne straziata, del sangue, della crudeltà, trasformando in tema centrale ciò che dovrebbe essere solo dettaglio (proprio come “sex and the city” lo fa con le frivolezze), non fa che puntualizzare l’ovvio. Come la pornografia (non a casa si parla appunto di torture porn), questo tipo di cinema mette la lente d’ingrandimento su un dettaglio, trasformandolo in un feticcio. In pratica è la celebrazione della monomania. E così come la pornografia rischia spesso di far passare un messaggio sbagliato (reificazione della donna, interfaccia con l’altro sesso esclusivamente fisica, standard estetici poco attinenti alla realtà, pretese di prestazioni fantascientifiche, sovrumane, acrobatiche) che può dis-educare, anche un film horror incentrato sul dettaglio può portare a distorsioni più o meno gravi: dal malumore alla familiarizzazione con la violenza.
Una violenza però che non è esperita direttamente come in uno sport da ring, ma è “osservata da fuori”, e per giunta non è neppure reale. Delirante come guardare un porno avente per protagonisti dei pupazzi di gomma. Come definire questa serie di paradossi? Voyeurismo della violenza, per giunta simulata?
Nessuno, forse gli addetti ai lavori sì, ma nessuno ha affrontato apertamente questo aspetto dell’horror moderno, ma l’idea che possiamo farcene dopo un fugace colpo d’occhio è che, con l’approfondimento dello studio della psiche umana e delle tecniche di comunicazione, una nuova generazione di autori ha schierato nelle proprie opere una “potenza di fuoco” senza precedenti nella storia dello spettacolo.
Lo scopo, perlomeno apparentemente, è quello di offrire un’opera che lasci il segno per quanta impressione fa. L’effetto, a lungo andare, è deprimere. Non c’è niente di liberatorio. Facciamo tutti la fine della protagonista di “the descent-discesa nelle tenebre”, impazzita ed incastrata nelle viscere di una montagna.
Vale la pena tutto questo lavoro se “il segno” che si vuole lasciare è una emozione negativa? Ne dubitiamo.
C’è poi l’aspetto “filosofico”, con quel male che resta impunito.
Se i vecchi Horror si concludevano come lo splendido “Suspiria” (Qui il link alla scena finale), coi cattivi lasciati alle fiamme dell’inferno e l’eroe che si allontana con il sorriso isterico dello “scampato pericolo”, lasciandoci un messaggio di speranza, cosa fanno i nuovi horror?
L’esatto opposto. E’ ovvio che in questa sede non si sta formulando una regola sempre ed eternamente riscontrabile, ma si cerca di evidenziare un trend.
E il trend attuale, come abbiamo detto poco sopra è che il Male resta impunito, viene reiterato e gli eroi, o presunti tali, muoiono.
In altre parole San Giorgio sfida il drago e perde, l’Arcangelo Michele viene domato dal diavolo, Shiva è sopraffatto dal nano Apasmarapurusha. La morale ne esce rovesciata come la croce dei satanisti.
Questo riferimento mitologico non vuole essere una divagazione fine a se stessa.
Quando si racconta una storia che mette in gioco tematiche come il male, la vita, la morte, è inevitabile entrare nel campo del mito. E il mito è sempre ed eternamente presente. Lo incarnano le leggende, le fiabe, i romanzi, i film, lo spettacolo e l’arte quando si tratta di opere degne di essere prese in considerazione alla luce di questa chiave di lettura. Lo incarniamo noi stessi anche nel nostro vissuto e nelle nostre dinamiche psicologiche. Si sprecherebbero gli esempi letterari e scientifici (uno su tutti:Hillman) in merito, ma esuleremmo dal campo di questo articolo.
Le tre immagini richiamate (quelle di Shiva, di San Giorgio e dell’Arcangelo Michele) raccontano, con le dovute sfumature culturali, la stessa storia: quella dell’essere che, domate le forze “infere” (interiori ed esteriori), spezza il ciclo di una esistenza animalesca e diventa se stesso. Dall’arte figurativa ai poemi epici, dalle fiabe ai film passando per i fumetti di supereroi, quello che fa l’eroe è sconfiggere una forza terrena e guadagnare una prospettiva nuova sul mondo, “rompere un livello” e guadagnare da ciò una regalità. In altre parole: “sedersi sul trono”.
E’ interessante a tal proposito osservare come buona parte dell’epica, anche nel fantasy che ne riprende in una prospettiva commerciale le tematiche, verta spesso sull’idea di un “ritorno”, come se ci fosse la percezione archetipica di una perdita. E’ il tema della Caduta trasposto in forma narrativa. Si sta parlando di noi.
Si parla spesso e volentieri di re spodestati, di sortilegi che addormentano uomini di valore, di draghi che tengono sotto scacco regni o villaggi, o di stregoni che con l’inganno esercitano il potere.
Il mito di Michele, Shiva, San Giorgio, di Ulisse che, tornato a Itaca dopo aver navigato in lungo e in largo fa strage di Proci ritorna sempre, gli esempi potrebbero essere infiniti (a proposito della navigazione di Ulisse ricordiamo il mare come simbolo della mutevolezza, delle emozioni incontrollabili e del caos: dalle acque vengono salvati Mosè, Romolo e Remo, Noè costruisce un’arca per salvare dal diluvio quella fauna cui Adamo aveva assegnato i nomi, Cristo cammina sulle acque ecc). Qui, però, si sta parlando di cinema popolare e fa piacere ricordare uno dei più truculenti ed epici degli ultimi trent’anni: “Conan il Barbaro”, film di John Milius in cui Arnold Schwarzenneger veste i (pochi) panni del personaggio creato negli anni trenta da Robert Ervin Howard (prolifico scrittore pulp texano amico di Lovecraft che soffriva di manie di persecuzione, praticava la boxe, girava armato, scriveva in un forbito inglese Shakespeariano e morì suicida).
In questo film il protagonista vede morire i propri familiari (e con questi tutto il suo villaggio) uccisi da un gruppo di predoni capitanati da Tulsa Doom, semidio a capo di una setta di adoratori di Set. Ridotto in schiavitù e poi venduto come gladiatore, cresce ossessionato dal simbolo che campeggiava sulle insegne degli assassini dei suoi genitori. Vive per vendicarsi e alla fine lo fa, decapitando Tulsa Doom (con la spada che questi anni addietro, aveva rubato a suo padre, ecco l’idea del recupero della regalità rappresentata qui dalla spada invece che da un trono) davanti ai suoi fedeli, e sciogliendo così i vincoli che tenevano questi avvinti al suo carisma. (Link alla scena).
Tutta la storia raccontata nel film di Milius (ben diversa dai racconti di Howard): non si stacca dallo schema poc’anzi descritto: è la storia di un individuo che, avvolto nelle spire del proprio destino (qui esplicitamente rappresentato dal simbolo del serpente), riesce a rompere i ceppi, liberare se stesso e con se stesso anche il mondo (gli adepti della setta sono tantissimi e, quando Conan ucciderà Tulsa Doom sotto i loro occhi, durante una sua predica, questi abbasseranno la testa spegneranno le torce cerimoniali e lasceranno la scena in silenzio, come svuotati).
Se interpretiamo nell’ottica con cui abbiamo appena letto Conan l’horror moderno, perlomeno il trend pessimista cui sopra si faceva riferimento, cosa dobbiamo pensare? Possiamo solo concludere che ci troviamo di fronte alla narrazione di un fallimento e magari dell’umiliazione di chi cerca di sconfiggere il serpente.
In fondo la storia di Conan, come quella di innumerevoli altri personaggi altro non è se non la storia di una iniziazione personale. Quel tipo di esperienza che porta un’anima, dopo diverse prove, a sedersi sul proprio “trono”. In questa ottica, se definiamo cioè “iniziatico” (nel più generico senso possibile) il contenuto di questo genere di storie, come potremmo definire se non controiniziatici i torture porn e la new wave dell’horror, nella loro malvagia rappresentazione di un mondo spaventoso e ineluttabilmente sopraffattorio?
Per carità: da Prometeo a Icaro la mitologia è piena di fallimenti e castighi, ma l’effetto invasivo di certi spettacoli va ben oltre quei semplici “sigilli” messi per insegnare un limite (la cui stessa presenza suggerisce l’idea di un possibile superamento, Pinocchio docet). Anche perché in film come “Hostel” non sono gli dèi, non sono le forze della natura ad essere sfidati e a trattare gli esseri umani come cavie. Sono le persone. E’ l’opera degli uomini a fare quello che noi chiamiamo “male” e reiterarlo impuniti. Viene soffocata come una sorta di hybris quella che in realtà è la naturale reazione di un individuo che vuole difendersi e vivere!
In quei film è l’opera degli uomini, il mondo che ci siamo costruiti a difendersi.
In altre parole è lo status quo che caca in testa ai sudditi dicendo loro che è meglio non ribellarsi, non sapere, non conoscere. A livello archetipico i film di quel tipo sono la voce del potere in forma di fiaba. Sono l’antiribellismo per eccellenza. Ti dicono di non passare al bosco perché il bosco è spaventoso. Sarebbe interessante fare uno studio a campione sull’evoluzione subita da individui cresciuti assistendo a questo tipo di spettacoli.
Nel mai sufficientemente deprecato mondo della critica ufficiale c’è chi si riferisce ad essi come “favole nere”, e spolvera tante paroline da intellettuale da salotto come “indagine del lato oscuro” (per inerposta persona? viene da chiedere)ecc.
Ma si tratta dello stesso tipo di critici che ha cercato, ai tempi, di sdoganare “il grande fratello” e in generale i reality show. E’ gente che non critica né elogia realmente quello che vede, ma si limita a sottolineare con parole altisonanti ciò che già c’è. E se c’è, si dicono pavidamente quei personaggi, è meglio inventarsi una legittimazione a posteriori per la sua presenza, secondo la logica del “se non puoi combatterli, fatteli amici”. Come quei servizi TV di costume che parlano delle nuove tendenze giovanili, delle nuove perversioni sessuali, dei nuovi generi musicali. Sono cronache, non studi. Sono fuffa.
Bello ricordare, a tal proposito, questa scena dal film “Caro Diario”, di Nanni Moretti. (link)
La verità è che gli unici effetti di queste sarabande di violenza tanto in voga sono solo scoramento, depressione, pessimismo.
“Tocca l’oscurità e l’oscurità ti tocca a sua volta”, avevamo detto in apertura.
Senza fare i moralisti o i fanatici religiosi all’americana, possiamo convenire, in barba a tutta la pletora di stolti che dicono “è solo un film” o “è solo musica”, che uno spettacolo può sortire degli effetti se non radicali, perlomeno importanti.
Forse la suggestione, sia essa ipnotica o semplice frutto del perturbamento, non può modificare la nostra personalità ma è certo che, declinando ovviamente in base alla maggiore o minore permeabilità del soggetto, possa perlomeno riuscire a creare degli attriti interiori, dei conflitti forieri di stress e sofferenza. Il modo in cui poi questa sofferenza possa degenerare in nevrosi, risolversi, o restare quiescente sta tutto al vissuto personale.
Chi scrive è cresciuto negli ambienti dei fruitori e dei musicisti della musica estrema. Death Metal, Black Metal, e le varie declinazioni del Dark.
Ciò ha permesso di osservare come la ripetizione di testi ed immagini, accompagnate da suoni, ha effetto sulla psiche e sul sistema di valori di individui particolarmente suggestionabili. Questo in barba allo stolto ritornello che tutti noi ripetevamo come scimmie “una canzone non mi può cambiare”.
Niente di più falso.
Il numero di ragazzi che verso i venti anni sono stati “rovinati da quella musica” non è affatto ridotto. Certo, se si trattava di persone impressionabili o deboli, comunque sarebbero finite su un’altra cattiva strada. Ma è chiaro che su di loro certi messaggi sono diventati prima moda, poi convenzione sociale all’interno di un gruppo, in seguito forma mentis e alla fine condanna. La nota vicenda delle Bestie di Satana è stata una squallida storia di balordi adolescenti su cui i giornali hanno marciato per vendere di più. Ma è stata anche un esempio degli effetti della suggestione musicale. Un esempio estremo, ma una interessante punta d’iceberg. Questo perché il numero dei ragazzini che in quegli anni hanno familiarizzato con il relativismo etico (circolarmente figlio e padre di quello estetico per l’odiosa formula “eh, se gli piace…”) del satanismo all’amatriciana e glorificato il brutto o che semplicemente si sono persi letteralmente in “cazzate”, magari portando nei propri drammi altre persone, è incalcolabile. La ragazzina che torturava animali, l’idiota che voleva essere un vampiro, la ventenne che litigò coi genitori perché, stronzi, bocciarono il suo progetto di dipingere di nero le pareti della sua stanza e disegnarci un pentacolo rosso. Ma anche il giovane che ha scoperto la via dell’alcolismo per imitare i propri eroi.
Non serve aver sacrificato il figlio neonato del vicino di casa su un altare per dare segno di essersi fottuti il cervello e rovinata la percezione del reale.
Tolta la pittoresca paccottiglia satanica, resta una cosa: una vibrazione.
Ed è una contaminante vibrazione negativa, un umore nero che intristisce e corrompe i più deboli.
In questa prospettiva il satanismo del black metal, così come le suggestioni del nuovo horror o l’ambiguità morale delle nuove serie televisive e perché no, la criptopedofilia (neanche tanto cripto) dei film di Larry Clark hanno una radice comune: la solitudine e la disperazione dell’uomo moderno. Che sia lo shopping autistico o l’osanna innalzato alla libera impresa, che sia il satanismo o l’opportunistica amoralità promossa da certi antieroi dello spettacolo, il messaggio che passa è che viviamo in un mondo senza punti di riferimento dove solo un cieco egoismo carico di compulsioni ai limiti con l’autismo ha diritto di cittadinanza. E se per certi soggetti ciò può essere di stimolo per prendersi la responsabilità della propria vita, incidere le proprie tavole della legge, combattere per difendere la propria postazione, per altri individui questa cosa genera un horror vacui disperante.
Il serial killer è, in questa ottica, un tipo di personaggio il cui individualistico narcisismo ben risponde alle esigenze dell’uomo post moderno.
Se gli studi del canadese Robert Hare hanno evidenziato che il manager di successo ha un profilo che corrisponde dal punto di vista psichiatrico a quello del serial killer, non è affatto campato per aria ritenere che questo profilo stia via via contagiando anche chi non è chiamato dal lavoro a certe deformazioni, visto che oggi l’eroe promosso dai media, dallo spettacolo, dalla pubblicità, ma soprattutto e ben più gravemente, dalla scuola, una scuola sempre più tecnica e sempre meno umanistica (si pensi alla riduzione delle ore di filosofia nei licei e l’idea delle work experience estive), è proprio il manager di successo.
Non è un caso se dagli anni ottanta in poi si è sviluppata negli Stati Uniti, e da lì in tutto il mondo, una sottocultura guardona da rivista di gossip incentrata sui serial killer (quelli veri. Fu messa in commercio anche una controversa raccolta di figurine che riproduceva le foto dei vari Dahmer, Gein, Ramirez, Manson ecc…). Una cultura denunciata ed irrisa nel bellissimo film di Oliver Stone “Assassini Nati” (1994) (in cui ritroviamo Woody Harrelson, il Marty di True Detective), che col tempo è cresciuta fino ad avere legittimazione e consacrazione mediatica in serie televisive come “Dexter” o “The Following”. Il sottotitolo della locandina, i media li resero delle star, fu eloquentissimo nel sottolineare il letale mix di esposizione mediatica e voyeurismo che oggi intride di sé il modo di fare cronaca nera anche da noi (Pietro Maso ha pubblicato un libro, Misseri è una mezza rockstar, le Bestie di Satana possono vantare interviste su Fox Crime, Pacciani, ai tempi che furono, fu ospite di alcune trasmissioni televisive. Al momento me ne sovviene una, presentata se non erro da una delle Carlucci, in cui una pornostar di nome Gessica Massaro asseriva di avere avuto una relazione con lui).
E che dire della fascinazione dei giovani per la figura del vampiro che per almeno un lustro ha imperversato per tutto l’occidente? Cosa è il vampiro se non un essere che trae giovamento dall’altrui annichilimento? La risposta è semplice: il vampiro, così come il serial killer, lo psicopatico, l’essere incapace di empatia e rimorso, egocentrico avvezzo alla menzogna e alla dissimulazione delle proprie reali emozioni, è l’uomo che il capitalismo ha addestrato nel giro di pochi secoli.
E’ in questo background che si inserisce True Detective-Stagione 1.
Una storia in cui è chiara la demarcazione fra bene e male (anche se poi i buoni sono un po’ sporchi e almeno un cattivo manifesta una qualche forma di candore).
In cui il male non è affascinante ma solo malattia.
Una storia in cui la volontà di due uomini, come la lama di Conan, riesce a tagliare le spire del serpente che aveva soffocato le vite di molte persone.
In cui è evidenziato come il dolore delle vittime non lasci indifferenti, e produca la propria eco nel tempo e nelle vite degli altri (come cantavano gli Iron Maiden: “the evil that men do lives on and on”). Di come la perdita sia sempre irreversibile.
Un’opera in cui, alla fine della battaglia, gli eroi hanno ripreso in mano il proprio destino e possono confrontarsi col passato, con lo specchio: Marty rientra in contatto con le figlie che non vedeva da anni, Rust non solo è finalmente libero da tutto il peso che avvertiva su di sé , ma addirittura, con l’ultimo commosso monologo (link), rivela come la sua stessa concezione del cosmo sia cambiata. “La luce sta vincendo”, dice, lasciandoci intendere che in fondo il suo pessimismo precedente era solo una lunghissima opera al nero.
Tutto ciò offre una prospettiva eroica e non statica. E’ il più classico tema esistente in narrativa: il viaggio dell’eroe.
Il messaggio è preciso: il “nero” è una fase del processo di sviluppo dell’essere. E se riesci a tenere fermo il punto, a continuare a percorrere quella che tu hai eletto come via maestra, puoi spezzare la spirale. Puoi rinascere. “Niente di ciò che ho lasciato in quella stanza di ospedale mi serve più, ormai”, dice Rust. Siamo di nuovo nella città dove tutto è iniziato, ma nulla è più come prima. Come alla fine delle grandi avventure (“sono tornato”, disse – J.R.R Tolkien, “il signore degli anelli”).
Col suo compagno di ventura ha rotto il ciclo (lo sa pure Errol Childress, il maniaco che stanano, quando, intuendo che la polizia sta arrivando a lui, dice “questo ciclo di morte sta per chiudersi”).
E l’immagine dei due protagonisti che si allontanano dall’ospedale (come al solito battibeccando, ma a ruoli invertiti), sembra voler rappresentare un essere che si è ritrovato. O, se si vuole, di un essere che si è riallineato, rimesso in ordine. E’ di figure simili che il nostro immaginario ha bisogno, oggi più che mai. E il fatto che l’industria dell’intrattenimento stia lentamente espungendo la figura dell’eroe sostituendola con personaggi pieni di debolezze, vizi e bisogni, è in tal senso allarmante: stanno togliendo all’uomo l’idea di essere padrone del proprio destino, di poter realizzare un ordine diverso da quello esistente.
Ma è dai tempi dei primi miti che l’uomo ha bisogno di figure di riferimento simili.
Di eroi che infrangono leggi cicliche (certamente utili, queste, a ogni manipolazione: politica o commerciale che sia, sempre che abbia ancora senso la distinzione), distruggono cupole criminali, si liberano delle spirali depotenzianti di tutte le Carcosa del mondo.
Di figure che insegnino come la volontà sia la mina capace di far saltare qualsiasi roccia premiando con la speranza, anzi la certezza che chi la esercita può trovare la luce in fondo al tunnel.
Non di vampiri, di serial killer, di zoccole che fanno shopping o di crudeli re seduti su improbabili troni. Figure “cattive” nel senso di “catturate” dalle proprie necessità, funzionali all’epica del consumatore in balia dei propri bisogni, celebratore passivo di un potere che subisce prono.
Se a essere ridotte in schiavitù erano un tempo le persone che venivano catturate come bottino di guerra, pensando all’etimologia di “cattivo”, non può che venirci in mente una cosa sola a proposito di questo cattivismo da circolo letterario, a questi antieroi “cattivi”, quindi “catturati”.
Sono schiavi.
Esempi per schiavi.
Se andiamo avanti così finirà che le case editrici americane ci regaleranno un nuovo tipo di supereroe: quello con i superdoveri anzichè i superpoteri.
Darkworker, il negretto che ha il superdovere di non ribellarsi mai al padrone e dice sempre “zì”, Flash Cukold, il Fantozzi che ha il superdovere di concedere la moglie al suo capo, Captain Slave, il krumiro che sacrifica gli affetti familiari al lavoro, Deeptroath, l’eroe informatore della polizia, Superbitch, l’impiegata che sorride mentre il superiore la lega, la sculaccia e magari glielo schiaffa nel culo (ah no scusate, quella c’era già in “Secretary”).
Meglio riguardare True Detective per la quarta volta.
“Ho scritto Atto d’amore perché ero arrabbiato, arrabbiato per il fatto che tanta attenzione fosse rivolta agli psicopatici e agli assassini, e nessun interesse sfiorasse le vittime.”
(Joe R. Lansdale)
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Ciò che sorprende in ogni articolo è la capacità di tenere avvinto il lettore dall’inizio alla fine. Per quello che mi riguarda, esprimo personalmente la piena condivisione sui contenuti. Anch’io sono fra quelli capaci di rivedere per la terza, quarta volta un film bene interpretato piuttosto che certa tv…
Complimenti!
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Ho riletto l’articolo con immutata soddisfazione. Si intuisce il tuo amore per la tematica dei sentimenti forti.