“BENVENUTO IN QUESTO MONDO STRAORDINARIO FATTO DI NUMERI
DOVE NESSUNO È INDISPENSABILE MA TUTTI SIAMO UTILI,
E LA COSCIENZA È SOLTANTO UNA SPINA NEL FIANCO PER CHI VIVE D’ISTINTO.
BENVENUTO ALL’INFERNO!”
(Linea 77- Divide et Impera)
Zoppicavamo ai margini di cinema multisala e centri commerciali come zombi in un film di Romero.
Affamati come loro ma dolorosamente autocoscienti, affollavamo le strade delle nostre città ipotecate alle multinazionali muovendoci stancamente senza una meta.
Topi in un labirinto ripresi con la telecamera e riprodotti in slow motion.
Ci avevano strappato gli occhi.
Cucito la bocca.
Riempito le orecchie e il cervello di merda.
Ma lasciato sufficiente consapevolezza per soffrire la nostra condizione.
Il presente, scomodo e incerto.
Una selva intricata di tasse, scadenze, contratti a termine e radiazioni elettromagnetiche.
Il futuro, un nero baratro.
Un abisso che apriva squarci su dimensioni insondabili di indicibile dolore.
Vivevamo le nostre giornate come videoclip senza senso che rimontavano scene già viste miliardi di volte.
La notte il sonno ci sorprendeva come un collasso e assomigliava più a un coma profondo che a un riposo.
Ci svegliavamo più stanchi del giorno prima e il video ricominciava.
Una sit com dell’orrore con canovacci triti e ritriti.
Comparse fisse.
Situazioni standard.
Epiloghi tormentone.
Risate campionate e applausi registrati.
I media, ventriloquizzati dai guru della finanza apolide ci rammentavano ogni giorno che stavamo di merda, ma la svolta era dietro l’angolo.
Ormai nessuno ci credeva.
Ogni anno quell’angolo si allontanava di un anno.
E il tragitto per raggiungerlo si faceva sempre più faticoso e sconnesso.
Accettavamo lavori del cazzo per non ammettere che eravamo mantenuti dalla generazione che ci aveva preceduti e che, morti loro, saremmo rimasti con le pezze al culo come gli energumeni dell’est che venivano a pittarci le pareti di casa.
Molti si aggrappavano all’umiliante occupazione che avevano trovato e, persi per persi, sceglievano di credere nelle stronzate della mitologia aziendale (oggi storytelling perché l’italiano dobbiamo dimenticarcelo) sempre più simile a una religione alternativa sulla falsariga di Scientology con tanto di culto unipersonale dedicato al leader.
Stesse tecniche e stesso lessico.
Come da ragazzini i più fragili sopportavano le angherie dei bulli a scuola, così da grandi i più ingenui accettavano di buon grado le balle del branco di teste di cazzo nutrite a manuali di PNL e psicologia da bancarella che sodomizzavano la loro anima occupando militarmente persino i sogni.
Goffi balordi ignoranti che avevano ricevuto in prestito qualche abracadabra dai maghi neri della comunicazione imperversavano nella psiche dei più ingenui facendovi il bello e il cattivo tempo.
La psicanalisi usata per spremere dall’uomo ogni stilla di forza vitale.
Per fare del male.
Portavamo sulla schiena pesi che avrebbero piegato un boscaiolo, ingoiando rospi grandi come coccodrilli, mentre le ragazze più intraprendenti ingoiavano i cazzi e lo sperma dei loro padroni nella speranza di un trattamento di riguardo che spesso non arrivava.
L’orologio era il nostro incubo.
C’era chi ancora credeva nella favola di destra e sinistra e chi invece credeva che il diritto dei gay di adottare un bambino fosse più importante di quelli che stavano via via togliendo ai lavoratori. Che ai gay stessi, dati dei sondaggi alla mano, non fregasse una beata minchia di adottare bambini se si escludeva una ristrettissima minoranza, era una verità che tutti tacevano perché era più importante oscurare un dato fondamentale. E cioè che duecento anni di conquiste del movimento operaio stavano venendo liquidati in meno di due lustri. Era più importante battersi per l’altrui diritto di farselo schiaffare in culo su pubblica piazza, o di adottare un marmocchio problematico in qualche orfanotrofio per dargli due genitori dello stesso sesso.
Era più importante piangere la morte di un vip che ci aveva cresciuti, esultare per uno scudetto o fare l’upload su facebook della foto scattata a una pietanza che si stava per mangiare (magari postata subito dopo il filmato girato col cellulare a un funerale) invece di realizzare che ormai stavamo sotto al Faraone.
Era più importante gridare come scimmie per i diritti dei migranti piuttosto che chiedersi dove cazzo metterli e come gestirli.
I talk e i reality show non erano più la droga delle casalinghe.
Il nulla e la depressione li avevano sostituiti.
La gente era scivolata in un coma di quotidianità delirante e tornava in vita solo in presenza di un bersaglio facilmente identificabile, col voyeuristico compiacimento di sbraitare e inveire contro qualcuno o qualcosa che tutti devono odiare.
Per il resto del tempo restava solo la curiosità di guardare interessantissime trasmissioni televisive su cucine sporche, cagnolini problematici e malattie imbarazzanti. L’alternativa alla TV erano i social network, dove si poteva piangere o inorridire all’infinito per bufale inventate da qualche burlone, quando non da una precisa strategia di disinformazione politica, oppure sentirsi più buoni manifestando la propria tristezza per il tragico destino degli ospiti di un canile rumeno. Si potevano ingaggiare sgrammaticate lotte a colpi di post fra fazioni contrapposte. Complottisti contro anticomplottisti. Vegani e vegetariani contro carnivori. Credenti contro atei. Animalisti contro vivisettori. Amici dei froci contro amici di Cristo. E poi sempre loro, gli sfigati di destra e sinistra che non si erano accorti del cambiamento geopolitico ed economico, del fatto che non esistevano più gli stati sovrani e che le decisioni reali non le prendeva più la politica, o meglio quel teatrino che avevamo sotto gli occhi, se mai le aveva prese.
Per fortuna nei sexy shop potevamo comprare lubrificanti al sapore di cannella mentre in rete imparavamo come vestirci da donne, succhiare cazzi e vivere felici (link) mentre un papa uscito dall’uovo di Pasqua si faceva fotografare col pollice alzato come Howard Fonzarelli, e scriveva su twitter.
Il recesso e la disoccupazione ai massimi storici, così come il tracollo dell’istituzione scolastica erano problemi di cui si parlava con la stessa rassegnazione con cui si accetta il fatto che un giorno abbandoneremo la vita terrena. Non ci rassegnavamo invece a combattere allucinazioni collettive evocate da tutte quelle nuove parole che da una quindicina d’anni uscivano dalla bocca dei media come stronzi dal culo di un obeso: antisemitismo, omofobia, transfobia, satanismo, neofascismo, xenofobia.
La gente sclerava, piangeva, urlava.
Ci ubriacavamo che il sole era ancora alto negli stessi bar in cui signore di mezza età col cane in braccio compilavano la schedina del superenalotto fumando sigarette economiche. Giocavano più per rassegnato automatismo che per la reale speranza di una vincita. Finivamo per imitarle e qualche pallino sulla schedina ogni tanto lo riempivamo col pennarello pure noi.
Dello stesso nero di cui vedevamo tinto il nostro futuro.
Riponevamo in una farneticante intuizione cabalistica la nostra speranza ruttando luppolo e vinaccia, e questa frase andava bene tanto per il superenalotto quanto per la ricerca di un posto di lavoro.
I muri urlavano la disperazione delle generazioni più giovani. Frasi sgrammaticate vergate in spray o pennarello. Citazioni letterarie. Canzoni popolari. Disegni incomprensibili. Dichiarazioni d’amore imbarazzanti per forma e contenuti. Minacce di morte. Di suicidio. Celtiche. Svastiche. “A” cerchiate. Falci. Martelli. Cazzi. Croci rovesciate.
La cosiddetta arte prodotta dall’industria dell’intrattenimento era stupida, ripetitiva, fondata sulla reiterazione di tormentoni gioiosi e deliranti come i megafoni nelle colonie giovanili dei paesi comunisti, nei lager, o nel Romanzo di George Orwell (ma forse è più rappresentativo non parlare dei megafoni di 1984 ma del coro di pecore della “fattoria degli animali”).
E il sesso, sublimato quando non mostrato impudicamente, era sempre presente.
L’arte, quella vera, era sempre più rabbiosa, furente, dolorosa, disperata. Dava voce a quel rombo di sottofondo che accompagnava le vite di tutti noi e che, ascoltato con attenzione, si rivelava essere il glaciale urlo di dolore in cui il canto della creazione si era trasformato.
Inutile dire quale fra le due fosse l’arte promossa dai critici “di regime”.
Alcuni, soli come cani randagi, riponevano tutti i loro affetti negli animali domestici.
In assenza di figli, puoi sempre rapire una piccola creatura e snaturarla.
Una piccola creatura che compiangerai in un futuro non troppo remoto visto che comunque, a differenza dei figli, vivrà quasi certamente meno di te.
O che finirà col deprimersi e morire in un canile se invece sarà lei a sopravviverti.
Un cane.
Un gatto.
O un roditore che consuma meno, sporca poco, richiede poca manutenzione e se muore il danno non ti devasta.
Lo scooter degli animali domestici.
Ci avventavamo con brama famelica su altri corpi strappando vestiti e lacerando pelle, prendendoli a sculacciate e morsi, scopando con egoistica bramosia, ci facevamo legare, strangolare, frustare, umiliare, sputare, pisciare addosso, o semplicemente copulavamo come bestie feroci, ligi scolari dell’educazione sessuale made in youporn. A volte trovavamo le nostre prede in qualche locale. Sempre più spesso in rete, su siti creati ad hoc. Una manica di stronzi si lamentava del fatto che la chiesa era entrata nelle camere da letto dei propri fedeli dicendo loro come scopare e come no, ma non faceva una piega se il mondo dello spettacolo, quello della pornografia (sempre più osmoticamente comunicanti) o i sessuologi facevano lo stesso e con più pervasiva veemenza. Non c’erano margini di libertà nemmeno nell’alcova.
L’intimo sexy era la divisa d’ordinanza per qualunque donna che volesse spogliarsi davanti a un uomo, e il maschio dal canto suo doveva conformarsi ai modelli estetici imposti dall’industria dell’intrattenimento affollando le palestre di fitness.
Il pompino era un requisito culturale minimo, l’ingoio il giusto epilogo di un lavoro ben fatto, il sesso anale un buon dessert che non si dovrebbe negare al compagno se lo si ama davvero.
Così le ragazze erano costrette a imparare i fondamentali dal vademcum della pornostar e le obese erano tagliate fuori dal paese dei balocchi, mentre i maschietti passavano momenti angoscianti col righello in mano e wikipedia nel browser per verificare se la misura del loro cazzo rientrava almeno nella media indocinese e, in quel caso, quanto lontana fosse questa cazzo di Indocina. Le ragazze più giovani avevano fantasie bisex, quelle leggermente più avanti negli anni sognavano la doppia penetrazione. L’idea del sesso di gruppo una specie di Eden verso cui tendere senza crederci fino in fondo.
Quelli a cui il sesso era precluso per condizionamento o inaccessibilità dovuta a mancanza di charme e scarsa prestanza fisica sviluppavano una strana forma di autismo indotta da monomanie su specifici argomenti e, da semplici autodidatti, aprivano blog e si dicevano, con supponenza, esperti di qualche materia. Politica. Cinema. Musica. Letteratura. Agronomia. Psicologia. Alimentazione. Genetica. Fisica. Diritto. Economia.
Gli etologi lo chiamano comportamento sostitutivo e, malgrado tutte le giustificazioni che cercherai di addurre, caro hipster, sai che in fondo è così. Che baratteresti tutto il tuo impegno e tutta la tua (presunta) cultura per una fica bagnata.
Sui canali in streaming molti guru improvvisati parlavano di esoterismo e Risveglio e di fatto si sostituivano all’obsoleta morale tradizionale elaborando nuovi diktat. Più accattivanti ma non meno vincolanti.
Intanto nuove tendenze politiche venivano inventate.
Entrambe trovavano in alcuni utenti un ripetitore per diffondere i nuovi dogmi del’ipse dixit spirituale o politico con l’indice alzato al cielo.
Nei settanta al circolo del partito, nel mondo di Obama e Francesco sui social network.
A volte portavamo le mani al viso e ci scioglievamo in lacrime chiudendoci in posizione fetale dentro stanze vuote col solo eco dei nostri singhiozzi come colonna sonora. Ogni tanto qualcuno decideva di farla finita. Si sparava. Si tagliava le vene. Si lanciava da un viadotto. Guidava come un pazzo a fari spenti nella notte come in una canzone di Battisti e si stampava contro un muro trasformandosi in una maleodorante scultura contemporanea di materia cerebrale e sangue e lamiera e vetri e olio e bezina e vomito e merda.
Ma non faceva notizia.
Per contro, quando qualcuno usciva di testa e svuotava il caricatore di una pistola in testa a un passante, fracassava il cranio di uno sbirro a sprangate, o tirava una miniatura del Duomo sulla faccia di Berlusconi la notizia rimbalzava da un media all’altro e ispirava accesi dibattiti.
Veniva fuori che il mostro era un neonazista quando la vittima era uno straniero. Un comunista o un anarchico quando la vittima era uno sbirro o un bancario . Un depresso (perché, benchè non lo si ammetta esplicitamente, i malati di mente sono percepiti come qualcosa di pericoloso malvagio e contaminante nella Società dello Spettacolo) quando la vittima era un politico. Un Satanista quando la vittima era una vecchietta, un prete, o se semplicemente la violenza avveniva in qualche locale dove si suonava il temutissimo rock satanico. Non importava se tali illazioni fossero fondate o meno. Bastava una mezza frase, un appunto scritto sul block notes, una maglietta, un libro che la polizia ha rinvenuto sul comodino durante le indagini, per essere messo alla gogna. Non più fisica ma mediatica. Ma a volte non servivano nemmeno simili indizi. Si inventava la storia, oppure si prendeva quel dossier costruito a uso e consumo delle istituzioni chiamato Facebook e si sbattevano i cazzi di quella persona in primo piano su tutti i tg.
A volte persino la cronologia del suo browser per mostrare che era un mostro che guardava transessuali sui siti porno(link).
Si intervistavano conoscenti e vicini di casa del mostro e si trasferiva il meccanismo del pettegolezzo su scala nazionale.
E poi si continuava a parlare di crisi di valori.
E tutti a urlare fino a sputare le tonsille contro i nazisti, i comunisti, gli anarchici, i malati di mente, contro il rock satanico, contro ogni specificità che rendeva visivamente identificabile il nemico e permetteva di discriminarlo in quanto diverso(Gli ismi sono utili più per chi te li appioppa per discriminarti che non per te che magari nemmeno te li senti addosso).
E si invocavano leggi.
Sempre più leggi, ancora più leggi.
Contro l’omofobia, contro l’odio razziale, contro la transfobia, contro la discriminazione, contro il femminicidio, contro il satanismo, contro i pinguini, contro qualsiasi cosa.
Leggi
Leggi
Leggi.
Leggi per arginare l’imbarbarimento derivante dalla crisi di valori.
Non per curare la malattia del sistema in cui eravamo costretti a vivere, un mondo gestito da mostri senza cuore né cervello.
No.
Per rispondere alla crisi di valori. La fottuta crisi di valori.
Di cui i responsabili, ci dicevano, eravamo noi.
Perché i cattivi, in quel mondo alla rovescia, erano i poveri diavoli troppo sensibili per reggere il peso di una società malata.
Sbatti il mostro in prima pagina (link).
Non era il mondo di merda che ci era stato consegnato a essere malato.
Eravamo noi ad averlo fatto ammalare con la nostra crisi di valori.
Non era il capitalismo con la sua natura intrinsecamente cannibale, non era l’usurocrazia delle banche, non erano i politici che si facevano beccare con le braghe calate in compagnia di qualche zoccola, né i colossi dell’economia che decidevano la nostra vita dietro le quinte della politica. Non era la secolarizzazione della cultura né i cosiddetti intellettuali trasgressivi alla Odifreddi o Busi. Era la crisi di valori. Non era la pornografia a briglia sciolta, vero oppio dei popoli reperibile da qualsiasi bambino in forma gratuita e senza alcun tipo di controllo semplicemente accedendo alla rete con un cellulare, e non erano quei programmi televisivi di regime il cui unico scopo era rafforzare il culto per una istituzione malata a scapito del pensiero individuale.
Non erano il neoyuppismo degli squali cocainomani, né il fatto che nelle città ormai ci fossero più sexy shop che librerie.
Era solo lei, la crisi di valori.
Per questo era più importante beccare mezzo grammo d’erba nella tasca di un adolescente piuttosto che il machete nello zaino di un sudamericano maggiorenne. Era più importante dare la colpa al cantante o alla serie TV di turno se i ragazzini facevano le ammucchiate a dodici anni piuttosto che affrontare l’argomento da una prospettiva più onesta.
E cioè che la nostra società, fondata sul capitalismo, era un Mostro di Frankenstein acefalo che si nutriva delle proprie stesse carni, un golem che l’umanità aveva imparato a imitare ammalandosi dello stesso cinismo della stessa cieca mancanza di pietà, arrivando prima alla disperazione, poi alla definitiva animalizzazione.
Che la necessità di schiavizzare (il lavoro, oggi è questo) entrambi i genitori aveva disgregato le famiglie e lasciato i figli a sbadigliare soli in case sempre più piccole imbrigliati nella rete di internet, cattiva maestra molto più di quella televisione dalla quale ci metteva in guardia Karl Popper in un suo saggio di alcuni anni fa. Un incubo che Pasolini non avrebbe mai sognato.
Che il mondo del lavoro, specie quello delle aziende private, promuoveva lo psicopatico come modello di lavoratore perfetto (bastava leggere la definizione di psicopatia più generica, trovata su wikipedia, “disturbo mentale caratterizzato principalmente da un deficit di empatia e di rimorso, emozioni nascoste, egocentrismo ed inganno” per rendersene conto) e la monomania (a cos’altro tende la cosiddetta specializzazione?) come condizione mentale cui aspirare.
Che la società in cui vivevamo preferiva persone incapaci di avere sentimenti o tensioni umane.
Che l’unico valore messo volontariamente in crisi dai potenti era la forza. Ci era stato tolta la possibilità di usarla per difenderci, e poi lo Stato l’aveva monopolizzata per schiacciarci. Contemporaneamente intellettuali e ideologie perverse colpevolizzavano chi ancora la considerava un valore, in modo che nel giro di un paio di generazioni eravamo stati evirati tutti, mentre il suo uso coercitivo veniva concesso a enti privati, agenzie di vigilanza e contractors che presto avrebbero imperversato anche in casa nostra.
Per ora li stavano collaudando in zone di guerra a scapito della povera gente.
Era il Moloch di Allen Ginsberg (link).
Nessuno nasce nichilista.
Nessuno, singolarmente è portatore di una crisi di valori.
Perché i valori non vengono mai dal basso, ma dall’alto.
Solo che in alto ora c’è qualcuno di viscido, grasso ed ottuso che si è frapposto fra noi e ciò verso cui tendiamo e caca nei nostri cervelli delle false verità che noi prendiamo per buone.
E’ il consumismo a renderci tetri, cupi, egoisti, freddi.
E’ la sostituzione della pietas con la logica dell’utile a renderci macchine senza cuore.
Sono i media di regime e non gli artisti (perlomeno non quelli veri) a iniettare nei nostri cervelli un liquame nero che si sostituisce al nostro sangue, ci contamina e ci fa ammalare, ci corrompe, ci rende autistici, ci trasforma in larve. Larve che brulicano nella carcassa di una società decomposta.
Larve che marciano verso il nulla con passo incerto e la sola pulsione di nutrirsi e sopravvivere, perché ogni altro desiderio è stato spento dalla paura di uscire da binari che sono solo nella nostra testa.
Ma la logica alla base del capitalismo, su cui si fondano i valori della società contemporanea, non può essere messa in discussione senza che chi si permette di farlo venga additato come pazzo e reso innocuo col dileggio.
Eesattamente come un tempo non si potevano mettere in discussione le verità della chiesa senza essere additati come ertici e bruciati vivi.
A conti fatti era meglio bruciare vivi.
Permalink
come non sentire il bisogno di un’autoanalisi leggendo queste parole… Per farlo, però occorrerebbe proprio quello che questo articolo denuncia come mancante: l’onestà intellettuale.
“Nessuno nasce nichilista.
Nessuno, singolarmente è portatore di una crisi di valori.
Perché i valori non vengono mai dal basso, ma dall’alto.”
Complimenti!!!