Un bambino abbandonato, ovvero: della perdita del centro.

Il palloncino vola via di Livius partecipa al concorso Colori nel cielo di  Fotocontest

Il 19 Settembre del 2019 moriva a Catania un bambino di due anni. Non era caduto dal seggiolone battendo la testa, né si era strozzato ingoiando un grosso oggetto di plastica. Non era stato oggetto di violenza fisica da parte di un maestro d’asilo, di un genitore, o di una babysitter. Semplicemente suo padre, un ingegnere operativo presso una clinica privata, non quindi un giovane tossicodipendente o un alcolizzato, aveva dimenticato di portarlo al nido e, incredibilmente inconsapevole della propria dimenticanza, lo aveva lasciato nell’abitacolo dell’auto posteggiata sotto il sole presso il suo posto di lavoro. Per cinque ore l’uomo non aveva avuto coscienza dell’accaduto e solo la telefonata allarmata della moglie, che recatasi all’asilo per prendere il figlio non lo aveva trovato, lo ridestò torpore mentale in cui si trovava. Non è stato il primo (e temiamo non sarà l’ultimo) episodio di questo tipo. Periodicamente la cronaca nera ci segnala storie simili che hanno sempre gli stessi attori: un genitore, un figlio piccolo dimenticato in auto, la spietata, neutrale, ineluttabilità del sole e dell’incedere degli eventi. E il teatro è sempre (almeno nei casi di cui abbiamo memoria) il parcheggio del posto di lavoro. Basta combinare le parole chiave “bambino+padre+auto+lavoro” sul motore di ricerca di Google per scoprire come questo dramma si sia verificato a diverse latitudini e in diversi momenti nel mondo industrializzato. Quasi un format dell’orrore suscettibile di infiniti remake coi dovuti adattamenti geografici e culturali. La drammaticità del fatto porta il destinatario della notizia a visualizzare la scena, ora immedesimandosi nel dramma della colpa, ora biasimando il genitore che si rende responsabile di una così incredibile omissione. In ogni caso, secondo quel meccanismo a cui obbediscono ormai i nostri cervelli nell’era della comunicazione “a finestre”, si tende a isolare la scena come si farebbe con un apologo morale. E ci si limita a prenderne in considerazione pochi elementi senza contestualizzarli ma vedendoli staccati dalla nostra realtà quasi si trattasse del teatro dei pupi. La conclusione è che il “poveretto” o “il subumano”, a seconda del grado di pietà che proviamo per quell’uomo (ammesso e non concesso che la pietà che solidarizza non sia una ipocrita forma di disprezzo mascherato), è stato protagonista di qualcosa che “a noi non sarebbe mai capitato”, e subito dopo passiamo alla pagina dello sport o dello spettacolo.

Per quanto sia normale trarre delle conclusioni semplicistiche data la superficialità con cui le informazioni, anche le più gravi, ci passano sotto gli occhi ogni giorno, per chi è impegnato nell’opera di indagare l’uomo per scoprire se stesso e i propri limiti e margini di libertà, risulta non semplicemente importante, ma addirittura fondamentale superare l’orrore della superficie di questa notizia e interrogarci (nei limiti del nostro punto di vista, dei dati in nostro possesso e della nostra sensibilità) su cosa possa aver causato un simile evento. A maggior ragione se si pensa che, a differenza di storie molto più banali aventi il pregio di fregiarsi di protagonisti più funzionali alla narrazione del potere quali neonazisti, anarchici, fanatici religiosi, preti pedofili, satanisti o altri “uomini neri” dei tempi moderni, questa storia non ha scatenato i salotti televisivi in prima serata o stimolato un certo giornalismo d’indagine. È rimasta lì, come quelle storie che da ragazzi ci raccontavamo sulla spiaggia di notte davanti al falò, o in periferia seduti su un muretto sotto la luce gialla di un lampione. Perché analizzarla ci costringerebbe a interrogarci su chi siamo e che mondo stiamo costruendo.

Metterlo in discussione.

Infatti, ciò che salta all’occhio visti gli elementi fissi riportati poco sopra, è il luogo in cui il dramma si svolge: il parcheggio del posto di lavoro. Probabilmente sono successe tragedie simili anche altrove. Potremmo persino pensare, in un’epoca in cui va di moda additare le fake news, che con la scusa della privacy e dell’anonimato alcune di queste storie siano false, magari inventate per riempire le pagine del giornale. Ma è significativo che la specifica narrazione qui presa come esempio sia percepita da tutti noi come verosimile. E ciò accade non perché la fallibilità e la fragilità dell’uomo rendano possibile l’eventualità di un accadimento del genere. La difesa e la tutela della prole è infatti un imperativo biologico primario nell’uomo che solo una situazione patologica in senso ampio può derogare. Riteniamo verosimile l’episodio perché sappiamo bene come il mondo del lavoro si sia trasformato in un contesto nel quale sia fin troppo facile che sussistano i presupposti per lo sviluppo della situazione patologica di cui sopra. Si potrebbe dire, leggendo “il cappotto” di Gogol o la novella “il treno ha fischiato” di Pirandello, guardando la saga del ragionier Fantozzi o assistendo alla storia del personaggio interpretato da Alberto Sordi nel film “un borghese piccolo piccolo”, che le cose siano sempre andate così, ed in parte è vero, perché in ogni contesto sociale strutturato è inevitabile si producano forme più o meno intense di violenza psicologica, legittimate dalla gerarchia se chi dovrebbe esercitare il controllo non se ne cura o addirittura le avalla. Ma ciò su cui si vuole in questa sede porre l’accento è come il fenomeno sia diventato pandemico da un momento imprecisato della storia recente. Momento che forse si può far corrispondere all’entrata in scena dei cosiddetti esperti di comunicazione aziendale i quali, coi loro seminari, i loro stage, i loro corsi di aggiornamento, hanno condiviso con le aziende (diversificando il tipo di messaggio a seconda del grado gerarchico con cui si relazionavano) i sortilegi contenuti nei loro grimori di psicologia dei gruppi: l’uso a sproposito della prima persona plurale, le tecniche di programmazione neurolinguistica, la lettura del linguaggio del corpo decontestualizzata dall’ambiente terapeutico, i neologismi mutuati dalla lingua inglese, gli eufemismi spesso più mortificanti di un insulto. Tecniche nate vassalle della propaganda politica, del commercio o delle forze militari e di polizia, sono state consegnate nelle mani di giovani manager il cui unico intento era ottenere il massimo risultato col minimo dispendio di risorse “economiche”. Utile, per contestualizzare meglio la cosa, prendere in considerazione gli studi dello psichiatra canadese Robert Hare, il quale nel 2010 sottopose la sua Psicopathy Checklist (un questionario teso a misurare disturbi psicopatici) a dei manager dimostrando che la maggior parte dei disastri finanziari degli ultimi 15 anni non sono stati causati «da immoralità occasionali di persone che hanno sbagliato e che quindi possono pentirsi – scrive lo psicoanalista Luigi Zoja nel suo recente La morte del prossimo – ma da perversioni morali permanenti che, se non fossero state scoperte, sarebbero continuate perché non lasciavano sensi di colpa».

Ecco: è nelle mani di soggetti di questo tipo (chiaramente da proporzionare e verificare caso per caso) che sono state messe quelle tecniche le quali, nate in contesti terapeutici con lo scopo di favorire il rapporto fra analista e paziente, o in ambiti militari per ottenere un tipo di condizionamento irreggimentante in vista della tutela della patria o della sicurezza pubblica, oggi sono lo strumento tipico con cui si crea una situazione di sudditanza filiale all’interno di un’azienda. Per giunta in un’epoca in cui la lotta di classe sussiste ancora ma a parti invertite, visto che il datore di lavoro sta recuperando via via tutti i privilegi che si era visto togliere negli anni. Così come il 12 Luglio 1917 l’iprite fu usata per la prima volta sui campi di battaglia sorprendendo i soldati che per la prima volta si trovarono ad avere a che fare coi sintomi che essa causava, oggi le tecniche psicologiche vengono utilizzate nelle moderne trincee dove la vita e la salute ce le tolgono a rate. Chi ha la sfortuna di muoversi in certi contesti ed è sufficientemente scaltro (o per averlo appreso studiando, o per averlo esperito in precedenza) non ha difficoltà a riconoscere tanto il frasario pre-formulato in uso in tali ambienti, quanto la retorica aziendalista risultato di questi “upgrade”. Chi invece è rispetto a certe tecniche un neofita, si ritroverà come quei soldati che non comprendevano il perché delle difficoltà respiratorie ed irritazioni cutanee derivanti dal contatto col gas mostarda.

Ed è inevitabilmente del gatto.

Finché l’uso di certe tecniche ha il solo scopo di uniformare gli obiettivi dei dipendenti creando uno spirito di squadra, per quanto retorico in un modo nauseante, il fenomeno risulta buffo ad occhi disillusi, ma innocuo. Il problema nasce quando si creano situazioni malsane in cui soggetti in malafede optano per la via manipolatoria e atteggiamenti colpevolizzanti. Situazioni sistematiche nella grande distribuzione (uno dei contesti più difficilmente infiltrabili dai sindacati), largamente usuali nelle grandi aziende o negli ambienti bancari e assicurativi. Tornando all’esempio con cui abbiamo aperto questo scritto, ovviamente non sappiamo se l’ingegnere protagonista della triste vicenda sia stato vittima di un forte stress psicologico dovuto a questo genere di violenza o se invece fosse semplicemente un Fantozzi neogotico postmoderno. Quello che però possiamo ritenere altamente probabile è lo stato di ipnosi dovuta allo stress lavorativo in cui certamente versava e che lo ha portato, intimorito e succube, alla tragedia. Dimenticando il figlio, il frutto tangibile del proprio amore, della parte più nobile dell’essere, lasciandolo disidratare al sole e infine morire. Con tutti gli ulteriori rimandi simbolici che possiamo collegare al puer potremmo persino pensare che quel bambino lasciato morire al sole sia l’anima stessa di quell’uomo.

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Il fanciullino interiore, ucciso il quale resta in piedi solo una carcassa.

Significativo, inoltre, che episodi di questo tipo aventi sempre lo stesso teatro abbiano al massimo nel nostro paese stimolato l’obbligatorietà dei cosiddetti seggiolini intelligenti. Non si pensa mai di riformare l’uomo. La sua compromissione è data per assodata e necessaria, come se non ci fosse da interrogarsi sulle cause ma solo sui sintomi di un male. Ma la verità è che lo stress terrorizzante che ha portato a questa vittoria del sistema sullo spirito non nasce solo dalla fragilità del protagonista, né dal semplice ambiente di lavoro in cui questo e altri come lui erano inseriti. Non nasce nemmeno dal fatto che le famiglie ormai con tutti i membri ridotti in schiavitù lavorativa si ritrovano a palleggiare e distribuire i figli in giro per la propria città. Nasce da tutto questo, ma un legante importante, forse il reagente più venefico è la retorica della crisi, che dal 2008 ci viene rigurgitata addosso a pranzo e cena dalle crudeli bocche sorridenti della televisione, e che, unita al clima aziendale che abbiamo poc’anzi descritto, ha contribuito a fondare una religione oscurantista del lavoro e dell’economia rispetto alla quale siamo tutti colpevoli e penitenti.

Dal nostro punto di vista è interessante osservare questo fenomeno perché buona parte della sua “liturgia” e della sua “magia” si fonda su un uso strategico e funzionale delle parole da parte degli ufficianti del culto. L’obiettivo è turlupinare, detronizzare l’individuo sbilanciandolo usando le parole come una tecnica di judo, in modo da portarlo dove lo stregone vorrà. Ingannare l’interlocutore allo per creare in lui un nuovo centro di gravità che sia funzionale ai fini dell’azienda. Un uso costruttivo e attivo del linguaggio, invece,si dovrebbe fondare su un principio esattamente contrario: utilizzare le parole nel modo più coerente col loro significato originario per non destare ambiguità e far sì che il nostro discorso sia il più possibile simile al nostro pensiero, e chi ci ascolta veda noi, e non una maschera. Non per sbilanciare l’individuo e portarlo dove il nostro arbitrio vuole, al fine di schienarlo e farlo nostro, ma invece per aiutarlo a capirci e comprenderci per essere insieme. Non per proiettare riflessi e illusioni. Quel tipo di realtà fatta di tecniche di comunicazione da Gatto e Volpe di Collodiana memoria è l’opposto di una reale arte speculativa e di qualsiasi forma di comunicazione. Una prospettiva rovesciata come la croce dei satanisti: il nulla che ha la pretesa dell’essere laddove ogni esternazione del pensiero dovrebbe perseguire l’essere consapevole di sé.

Altrimenti è meglio tacere.

Nel mondo dove Dio è morto, nel mondo cioè dove non esiste un ethos condiviso (così facciamo contenti quelli che sono allergici alla parola “Dio”) ma una pluralità di auctoritas spesso in contraddizione reciproca tra le quali l’individuo sceglie sempre arbitrariamente, è quasi naturale che la parola perda il proprio valore e non conti niente.

Babele.

E ci ritroviamo assai spesso ad annuire a chi sappiamo bene ci stia mentendo. Questo pian piano ci logora e ci porta ad accettare che la sporcizia che contamina il mondo degli uomini contamini anche noi. Smarriti, ci muoviamo come bambini in un labirinto. Ma alcuni “adulti” conoscono bene le mappe e sanno come pilotarci.

È su questo “muscolo atrofizzato” che chi vuole perseguire una libertà propriamente intesa deve allenarsi nei nostri tempi bui, secondo un tutt’altro che facile dogma assai abusato nella retorica popolare ma poco compreso: pane al pane e vino al vino. Può sembrare pochissimo e drammaticamente banale, ma ogni presa di coscienza parte dalla riconquista di una dimensione selvatica interiore. La dimensione più pura del nostro essere, appunto quella del bambino che non dobbiamo abbandonare. E la saggezza popolare, coi suoi proverbi e modi di dire, che tendono a riportare al concreto rifiutando lo sgradevole turlupinare degli Azzeccagarbugli dello spirito, ci viene incontro in tal senso ricordandoci che un giro di parole è sempre una presa per il culo.
Non possiamo permetterci più di essere pensati, dobbiamo imparare a pensare. E la chiave di accesso al pensiero è la parola. Vale per noi e per chi si rivolge a noi. Chi la usa in modo strategico cerca una chiave per farti pensare come vuole, e non sempre le intenzioni sono buone.

Riappropriati del logos e non permettere infiltrazioni che non hai richiesto perché la tua testa è un sistema aperto e hackerabile. Sta a te curartene.

Chi ha orecchie per intendere intenda.

1 commento

  1. Preludio

    Una profonda analisi che induce alla riflessione

    Rispondi

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